«Lamarck non aveva tutti i torti!». Ne spiegano le ragioni Carlo Bellieni e Lourdes Velázquez nel saggio Il vero segreto dell’evoluzione (Cantagalli 2022, pp. 128), in cui gli esiti del neodarwinismo sono discussi criticamente alla luce dei risultati delle scoperte scientifiche più recenti, le quali riabilitano le ipotesi teoriche di Lamarck. Ai primi dell’Ottocento il naturalista francese, nei confronti del quale lo stesso Darwin si riconosce debitore ed erede sul piano scientifico, «avanzò la tesi secondo cui gli organismi viventi compiono spontaneamente ogni sforzo per adattarsi all’ambiente, trasformando la propria costituzione e funzionalità, che vengono trasmesse ereditariamente alla discendenza».
Tuttavia «la questione dell’ereditabilità dei caratteri acquisiti, che aveva bloccato il lamarckismo si può riformulare sia considerando in senso lato la trasmissibilità di caratteristiche entrate nell’individuo dall’ambiente, sia gli aspetti di collaborazione, convergenza, simbiosi e solidarietà che, al puro e semplice livello biologico, limitano il ruolo della semplice selezione naturale», come osservano acutamente gli autori del saggio.
«Darwin diceva che le specie si trasformano per poter sopravvivere: arriva un terremoto, un’inondazione e solo chi sa correre rapidamente o chi sa nuotare vive». Questo è vero, ma si verificano anche dei cambiamenti non legati necessariamente a migliori possibilità di sopravvivere o di riprodursi quali, per esempio, la riduzione nel tempo dei denti molari o delle dita dei piedi dell’uomo. Certo la capacità di adattamento all’ambiente è un segnale importante di integrazione che non va trascurato, ma non evidentemente l’unico fattore sufficiente a spiegare l’evoluzione delle specie.
D’altra parte il valore assunto dalle recenti scoperte legate all’epigenetica, ossia alla «capacità dell’ambiente di determinare un silenziamento o un’attivazione di uno o più geni», e al concetto di eredità genetica transgenerazionale implicano un ripensamento della teoria dell’evoluzione. Nel 2021 è stato infatti documentato per la prima volta un trasferimento genico orizzontale (TGO) avvenuto tra una pianta e un animale: una mosca bianca ha acquisito da una pianta di cui si nutre un gene che le consente di proteggersi dalle tossine delle piante cui portava alimento. Per quanto rara, esiste infatti la possibilità di trasferimento genico anche tra cellule conviventi, e non soltanto tra cellula-madre e cellula-figlia, la quale si verifica anche nei celebri batteri farmaco-resistenti, allorquando un germe aiuta un suo simile a sopravvivere «‘regalandogli’ un pezzetto di DNA», ossia di geni della resistenza. Allo stesso modo nei rotiferi i ricercatori di Harvard hanno individuato almeno 22 geni provenienti da trasferimenti orizzontali. Le ricadute di queste scoperte sono significative, in quanto determinano che «i confini tra una specie e l’altra non sono così chiari e impermeabili. L’individuo vivente, incluso l’individuo umano, è una cosa unica e irripetibile, certo, ma allo stesso tempo un mosaico di forme di vita e geni di varia origine», rileva ancora Bellieni.
Un altro elemento degno di considerazione è offerto dall’endosimbiosi, ossia la scoperta di creature a cellula singola che avrebbero conseguito una «compatibilità duratura, per caso e interessi sovrapposti», con altre creature simili. Gli stessi «mitocondri si originarono da antiche endosimbiosi di batteri. Prova ne è il fatto che i mitocondri possiedono un DNA diverso da quello del nucleo cellulare e simile a quello dei bacteria».
Di qui deriva la constatazione che «all’alba della vita sulla terra, a quanto pare, le prime vie evolutive non furono solo dovute alla scomparsa dei meno adatti dopo mutazioni casuali del DNA, ma anche all’ingresso di DNA nelle cellule dall’esterno, sotto forma di archea o di batteri che venivano inglobati e questo inglobamento veniva reso stabile ed ereditabile. Dunque si apre lo scenario che l’evoluzione della vita non sia stata dovuta solo a competizione, ma anche a collaborazione tra le specie».
Il modello evolutivo diviene così assimilabile più a una rete che a un albero, in quanto si basa sul principio del mutualismo che comporta il «fare un’azione in vantaggio di un altro, ma per salvare se stesso», per cui «un batterio si evolve per salvare il verme dove vive». Pertanto se nella «simbiosi una delle due specie soltanto ci guadagna dalla convivenza, nel mutualismo nessuna delle due specie conviventi potrebbe sopravvivere senza l’altra». Di qui, per esempio, il pesce pagliaccio e gli anemoni si proteggono reciprocamente dai rispettivi predatori, oppure «l’ape senza fiore morirebbe di fame; così come certi fiori senza ape non potrebbero riprodursi». Allo stesso modo, se non vi fosse tale mutualismo nell’occhio umano tra retina, cornea e cristallino non vi sarebbe alcuna possibilità di visione solo con l’uno senza l’altro. Inoltre uno studio recente sulla pianta Arabidopsis thaliana (arabetta comune) ha rilevato sorprendentemente che i «geni essenziali alla sopravvivenza sono i più protetti dalle mutazioni», il che conferma ulteriormente il fatto che non tutto avviene secondo selezione naturale e in maniera casuale.
La bioeticista messicana Velázquez ripercorre le tappe più significative della storia dell’evoluzionismo, evidenziando in particolare le ricadute in ambito culturale, economico e politico del darwinismo sociale, dalle leggi razziali all’eugenismo e all’ideologia gender contemporanei, i quali in nome di pseudo ‘diritti civili’ non fanno altro che perpetrare tale logica del più forte, sconfiggibile anche sul piano biologico da forme di mutualismo, collaborazione e solidarietà tra le diverse forme di vita.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana