«Sotto l’orizzonte della civiltà cristiana il singolo è irriducibile al tutto sociale in quanto dotato di un destino d’immortalità». È tale consapevolezza a illuminare il legame tra diritto naturale e giustizia al centro di Filosofia del diritto pubblico (Jovene 2022, pp. 225), una raccolta di saggi significativi del filosofo giusnaturalista spagnolo Francisco Elías de Tejada con una preziosa introduzione del professor Giovanni Turco.
Di qui, sulla scia della tradizione aristotelico-tommasiana, «dato il carattere sociale dell’uomo, la politica è arte regolatrice in vista di un adeguato sviluppo, conferma alla vita autenticamente umana», come osserva Turco relativamente all’analisi tejadiana. Il diritto si configura allora quale condizione della politica, per cui non c’è separazione tra i due ambiti, come accade invece nella tradizione moderna, che oscilla tra il primato del legale (Kelsen) e quello del politico (Schmitt), in cui è l’autorità di chi governa a dettar legge emanando norme in ossequio esclusivo alla sua volontà di potenza.
E in effetti lo ‘Stato di diritto’, «quello che sminuisce l’uomo alla pura condizione animale, eludendo la dimensione trascendente, è un attentato alla dignità dell’essere umano», scrive de Tejada. E ciò lo si constata anche oggi drammaticamente in tante leggi inique. Perciò occorre ripristinare uno ‘Stato del diritto’ quale «ordinamento giusto, nella misura in cui è il primato del bene comune a determinare il giusto legale e questo dà compimento a quello» – come sottolinea ancora Turco nel commento al contributo speculativo del giusfilosofo spagnolo – perché la politica non può esser ridotta né ad attività amministrativa, né di governo, né all’operatività dello Stato.
Il realismo del pensiero dell’Aquinate viene ripreso con grande chiarezza da Tejada: «La società è il risultato del desiderio della socialità, il potere politico è l’ordinazione naturale di quella società che la natura umana impone e la politica è l’arte regolatrice di conseguenze, con tutta la ricchissima gamma di problemi che comporta l’adeguato sviluppo di una conveniente convivenza umana».
In relazione al legame tra giustizia e sicurezza, Tejada rileva che «l’essere umano deve conseguire, praticando la giustizia, il suo destino trascendente verso Dio; l’uomo deve coesistere nella sicurezza con altri uomini per avere la possibilità di operare in modo da presentarsi come giusto davanti al suo Creatore e giudice». E ciò adempiendo anzitutto ai comandi divini.
La libertà dell’uomo è allora dunque sempre «libertà nella responsabilità del suo destino ultraterreno», per cui si tratta di riconoscere il diritto naturale quale condizione di possibilità del bene comune e «fondamento di ogni autentica civiltà», ribadendo il primato della retta ragione nel giudizio sulla realtà delle cose e su quanto accade. Al contrario, «se il diritto positivo è svincolato dal diritto naturale, elude la dimensione conforme all’ordine morale degli enti e si riduce a mero apparato di coazione», generando «tirannia animalesca».
Osservando la realtà empirica, Tejada ritiene perciò che il diritto non possa fondarsi sull’uomo che «può sbagliarsi o fare deliberatamente il male, poiché l’uomo può peccare settanta volte al giorno; la maggioranza democratica non è mai garanzia di avvedutezza, perché un cieco non è adatto a guidare un altro cieco. Occorre dunque una regola sicura, regola per non sbagliare che può derivare solo da Dio».
Pertanto «il diritto positivo, opera degli uomini, deve essere subordinato al diritto naturale, opera di Dio». In altri termini, «il diritto positivo è diritto nella misura in cui fa suo il diritto naturale» in ossequio alla legge eterna divina. Altrimenti un capo politico può anche essere un buon custode dell’ordine pubblico senza per questo mai amministrare la giustizia.
Alla luce di tali riflessioni, in buona sostanza, «senza il diritto naturale non è possibile la civiltà cattolica, né lo zelo missionario, né eroismo crociato; non è possibile la libertà teologica, e in assenza di questa non c’è libertà politica. Neppure è possibile autorità giusta, perché l’autorità viene da Dio attraverso il conformarsi alla legge naturale dettata da Dio stesso. Senza il diritto naturale cattolico non c’è altro che violenza politica, amarezza teologica, umiliazioni indegne, soggettivismi assurdi, collettivismi degradanti, rivoluzioni e tirannidi».
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana