«La famiglia è un’istituzione anarchica, nel senso che è anteriore allo Stato, al diritto e al mercato. Dipende dalla natura, prima di essere ordinata dalla cultura, poiché naturalmente l’uomo nasce dall’unione di un uomo e di una donna». Riprendendo le parole del filosofo francese Fabrice Hadjadj il sacerdote oratoriano Maurizio Botta – nel recente volume Famiglia…basta la parola? (Edizioni Studio Domenicano 2023, pp. 208) – introduce il primo dei “Cinque Passi al Mistero” volti a riscoprire «la grandezza della famiglia nel progetto di Dio e nella nostra vita personale, ma anche per affrontare quelle dinamiche che interpellano e mettono alla prova la preziosità degli affetti e dei legami familiari: la fedeltà, il rapporto con i figli adolescenti, la relazione con i genitori, la dimensione dell’amicizia» nelle pieghe ordinarie della vita quotidiana, come rileva nella prefazione padre Roberto Maria Viglino.
«Quello che distrugge la felicità e la famiglia è la mentalità anticoncezionale, la separazione del piacere sessuale dal mistero della vita», osserva padre Botta, rilevando come la causa principale della denatalità sia tale mentalità edonistica, diffusa a partire dal 1975, non la crisi economica. E in effetti è proprio in pieno boom economico che si cominciano a fare meno figli. Relativamente al significato profondo del sacramento del matrimonio il sacerdote oratoriano invita gli sposi a «guardare la Croce: cioè Cristo ti dà lo Spirito Suo per amare così». Se da un lato egli sottolinea che «è la fedeltà di Dio che ti rende fedele», dall’altro ribadisce con forza ai futuri sposi che la volontà di amare come Cristo va allenata giorno per giorno: «La vuoi veramente amare così, vuoi ricevere questo dono di poter amare una creatura in modo così indissolubile come Dio la ama? Sicuro che vuoi questo?”».
Nel ‘secondo passo’ dedicato alla fedeltà, padre Botta ricorre alle parole di Gaber, che così spiegava il senso della sua canzone Il dilemma: «A un certo punto abbiamo liberato anche l’amore, finalmente più nessuna repressione, anzi, per alcune coppie l’infedeltà è una specie di garanzia di modernità, e con questa smania di dare ascolto ai brividini del cuore si disfano allegramente le coppie, e gli amori nascono come funghi, in una strana euforia di cui il fallimento sembra la normale conclusione. Ma non ci è mai venuto in mente che proprio nella fedeltà si potrebbe trovare una risposta, diversa? No, non la fedeltà alle istituzioni, e neanche alle regole del buon senso antico, ma la fedeltà a noi stessi». E in effetti l’infedeltà è infedeltà a se stessi, a quella «parola data che, suggellata da una stretta di mano, misura il valore che noi diamo al nostro onore». La fedeltà a se stessi è sinonimo di verità; infatti biblicamente solo Dio è fedele. In sostanza «solo l’amore di Cristo è fedele, lo ricevi in dono, altrimenti non sei capace di amare fedelmente; altrimenti ha ragione Perfetti sconosciuti» (il film di Paolo Genovese,cinico nel suo racconto sulla fedeltà, quasi «sia impossibile morire al brividino»).
«Qualcuno abbia pietà di me, qualcuno mi faccia vedere che la vita ha un senso positivo, ha un senso ultimamente buono. Papà, mamma, fammi vedere che valeva la pena venire al mondo». Questo è il grido silenzioso, spesso soffocato, alla base dei comportamenti-problema di tanti adolescenti. È quanto osserva acutamente Franco Nembrini, le cui parole sono riprese dal sacerdote oratoriano nel passo sugli adolescenti. Ma il problema non sono i figli, bensì i genitori cinici, senza speranza, che non hanno nulla da insegnare, né tanto meno da testimoniare loro riguardo a come si possa amare fedelmente per sempre e nella quotidianità la persona amata. Di qui diventa fondamentale «poter guardare qualcuno, un figlio, dicendogli: io ti amo prima che tu cambi». È lo sguardo amante del genitore che rende il figlio sicuro di sé e capace di affrontare in maniera adeguata la realtà. Perché «un adolescente non si appassionerà mai di uno sconfitto, mai di un perdente, un depresso! Un adolescente cerca un combattente!».
«Un padre e una madre non sono l’assoluto». Assume la prospettiva dei figli padre Botta nel passo dedicato al rapporto tra genitori e figli: «Un figlio non è un prolungamento dei genitori, il figlio non è una proprietà del padre e della madre, non è una cosa loro, perché da un’altra parte ricevono questo dono». Riguardo ai genitori il sacerdote oratoriano li mette in guardia dal rischio di eccessiva apprensione, invitandoli al rispetto della libertà dei figli rispetto alla fede come ai loro errori, alla stregua del Padre misericordioso della parabola di Luca. «Una cosa che Dio non vuole è che i figli siano paralizzati dagli errori dei loro genitori. Ci sono ragazzi che sono bloccati dagli errori dei genitori come se fossero i loro». E conclude: «Non possiamo fare i genitori dei nostri genitori! Soprattutto perché la famiglia può chiedere ad un figlio cose non necessariamente cattive, ma che non sono quelle che il Signore vuole da lui». D’altra parte, è legittimo anche mettere alla porta un figlio ribelle, proprio come fa il Padre nella stessa parabola, perché sia fino in fondo responsabile della vita che ha scelto di condurre.
Rispetto al tema dell’amicizia, cui dedica il ‘quinto passo’, padre Maurizio Botta ne celebra il valore citando dapprima Lewis e Aristotele, il quale afferma che «senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se avesse tutti gli altri beni», poi il Vangelo di Giovanni, per il quale «“amico” è colui che dà la vita». Dunque l’Amico vero è Dio e «Cristo ci dà la forza di essere amici a nostra volta, cioè di dare la vita gli uni per gli altri», perché «se non dai la vita, non sei amico di nessuno».
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana