«Se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle di giganti», scriveva Isaac Newton in una lettera all’amico Robert Hooke, anch’egli membro della Royal Society e protagonista meno conosciuto della rivoluzione scientifica del Seicento. Nel rilevare che le scoperte scientifiche moderne avessero in realtà radici antiche, il padre della legge di gravitazione universale citava però testualmente e, probabilmente in modo inconsapevole, un altro grande filosofo francese e teologo medievale. Si tratta di Bernardo di Chartres, maestro di una delle più importanti scuole cattedrali del XII secolo, divenuto celebre proprio per il noto aforisma: «Siamo nani sulle spalle dei giganti».

Anche nel Medioevo si ritrova dunque la stessa consapevolezza degli scienziati moderni, la coscienza cioè che ogni scoperta scientifica non è l’esito di un’intuizione astorica di un ‘illuminato’, quanto piuttosto il frutto di un’attenta e lucida capacità di leggere la realtà della natura per rintracciare in essa i rapporti e i legami tra le diverse cose. Non bisogna perciò accostarsi alla realtà con tesi preconfezionate o mettere in questione un fenomeno prima ancora di osservarlo, bensì è opportuno cogliere e accogliere la realtà a partire dalla bellezza che si dischiude sotto i propri occhi.

I medievali sapevano bene infatti di non essere scopritori di nuovi fenomeni, ma soltanto meri inventores (dal verbo latino invenire, cioè trovare), “trovatori” nella realtà creaturale di rapporti qualitativi e quantitativi tra le cose in grado di manifestare con maggiore evidenza la costante dipendenza nell’essere dall’Essere, ossia delle creature dal Creatore. I metodi attuati per stabilire questi rapporti al servizio di tale scopo furono le arti liberali, cioè le discipline del trivio (la grammatica, la dialettica e la retorica), ma soprattutto quelle del quadrivio (la matematica, la geometria, la musica e l’astronomia). Lo studio delle sette arti liberali iniziò a essere praticato sin dagli albori dell’Alto Medioevo per poi essere incentivato in età carolingia, grazie al notevole contributo del maestro di corte di Carlo Magno, Alcuino di York, colui che contestò fortemente all’imperatore franco la conversione dei Sassoni a fil di spada. Egli promosse lo studio di queste discipline come propedeutico a quello della lectio biblica e del sapere teologico. Mediante una metafora particolarmente efficace sul piano comunicativo, Alcuino associò le sette arti liberali alle sette colonne che sorreggono il tempio della Sapienza.

Coloro che studiavano tali discipline furono allora tutt’altro che i beceri e rozzi ignoranti vissuti nei ‘secoli bui’ dominati dalla superstizione religiosa dipinti da una certa storiografia che si è sovrapposta alla storia nella pretesa di coprire la verità con la menzogna, allo scopo di screditare la Chiesa Cattolica e la ‘vittoria della ragione’ nella civiltà cristiana, per dirla parafrasando il titolo di un bel volume del sociologo americano Rodney Stark. Tralasciare, o peggio, ignorare intenzionalmente queste fonti medievali significa pertanto precludersi ogni possibilità di autentica comprensione dell’avvento della scienza moderna, e con essa, delle ragioni profonde sottese allo stesso metodo scientifico messo a punto da Galilei.

Nel solco di tale riflessione si sviluppa l’indagine molto ricca e accurata di James Hannam, fisico e dottore di ricerca in storia e filosofia della scienza presso il Pembroke College dell’Università di Cambridge. Egli è autore del volume Gods Philosophers, pubblicato dapprima nel Regno Unito nel 2009, poi riedito nel 2011 negli Stati Uniti col titolo The genesis of Science e tradotto recentemente in italiano (La genesi della scienza. Come il Medioevo ha posto le basi della scienza moderna, a cura di Maurizio Brunetti, D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 493, € 26,90).

All’alto Medioevo risalgono infatti invenzioni e tecniche che contribuirono a migliorare l’agricoltura, quali il sistema di rotazione dei tre campi, l’aratro in ferro e il bilancino, ossia un tronco disposto orizzontalmente al quale veniva imbrigliato l’animale da soma che consentì di aumentare il peso dei carichi e di uniformare le forze dei buoi e dei cavalli. Nei primi secoli del Medioevo si diffuse anche la pratica della ferratura degli zoccoli dei cavalli, al fine di migliorarne le prestazioni. Nell’Europa medievale furono inventati gli occhiali; gli orologi meccanici, straordinarie espressioni del patrimonio di conoscenze meccaniche dell’epoca; la staffa, che trasformò la cavalleria leggera in pesante e i mulini a vento. Furono poi potenziate e perfezionate le invenzioni provenienti dall’Oriente, quali la bussola, la carta, la stampa e la polvere da sparo, raggiungendo risultati sorprendenti.

Che la scienza medievale abbia preparato il terreno a quella moderna lo attestano numerosi personaggi illustri, che sono ecclesiastici, monaci, maestri di arti liberali attivi nelle scuole cattedrali francesi e inglesi e nelle università. Innanzitutto Gerberto d’Aurillac (950-1003), monaco e primo papa francese, che assunse il nome di Silvestro II, grande studioso di matematica e astronomia, che contribuì alla diffusione dei numeri indo-arabi in Occidente anche mediante l’invenzione dell’abaco e che redasse probabilmente un manuale d’istruzione per l’utilizzo dell’astrolabio, uno strumento che consentiva di ricavare l’ora locale dall’osservazione della posizione delle stelle e dei pianeti. Riguardo allo studio dei fenomeni naturali fu poi significativa la figura di Guglielmo di Conches (1085-1154), maestro della scuola di Chartres che tentò di conciliare la Genesi con il naturalismo del Timeo platonico. Egli introdusse un’importante distinzione tra la causa prima delle realtà create, che è sempre il Creatore, e le cause seconde, ossia le legge naturali, considerate invariabili e regolari, la cui indagine non pregiudicava assolutamente l’onnipotenza divina. In virtù di tale distinzione «egli non solo possedeva una giustificazione per indagare la natura senza violare la sovranità di Dio, ma aveva anche una ragione per credere che la natura fosse sufficientemente regolare nel suo funzionamento da meritarsi di essere esplorata in dettaglio» (p. 92). Ben prima di Galileo i medievali furono in realtà consapevoli che il mondo naturale fosse un libro scritto dal dito di Dio quasi alla stregua della Scrittura e che, in quanto tale, dovesse essere esplorato.

Per l’acquisizione di elementi scientifici su cui fondare lo studio delle discipline del quadrivio prima dell’arrivo in Occidente dei testi di fisica di Aristotele furono particolarmente utili alcune traduzioni di opere di autori antichi realizzate nel XII secolo. Mentre l’inglese Adelardo di Bath tradusse dal greco in latino gli Elementi di Euclide, un testo basilare per la conoscenza della geometria; Gerardo da Cremona tradusse nella stessa lingua direttamente dall’arabo l’Almagesto, ossia il Trattato matematico di Tolomeo, che costituiva una summa delle conoscenze astronomiche greche. Con le traduzioni e i commenti agli scritti di fisica aristotelici si diffusero le più svariate interpretazioni della realtà naturale soprattutto nel mondo arabo. E, contrariamente a quanto si possa pensare, nemmeno la condanna del 1277 di 219 tesi averroiste da parte del vescovo di Parigi Tempier, che pure inasprì la diatriba tra filosofi e teologi, poté arrestare la possibilità di nuove ricerche scientifiche. Anzi, proprio grazie a tale divieto, «i filosofi naturali non erano più costretti a seguire pedissequamente Aristotele, ma potevano fare appello alla libertà di Dio di fare le cose diversamente per sviluppare teorie al di fuori del paradigma aristotelico» (p. 138). Così poté cominciare già nel XIV secolo, con le formulazioni dei maestri calculatores del Merton College di Oxford, un processo di matematizzazione dei fenomeni naturali che sarà poi condensato nelle leggi fisiche moderne sul moto e sulla velocità.

È allora indubbiamente un falso mito quello secondo il quale nell’età medievale l’autorità della Scrittura avrebbe impedito o comunque limitato e influenzato negativamente la ricerca in ambito naturale. Se fosse realmente accaduto ciò, non si spiegherebbe perché, nonostante nel libro di Giobbe si parli dei «lembi» (Gb 38, 13) della terra, pressoché nessun medievale abbia mai creduto che la Terra fosse piatta. E ancora, basti ricordare che un pontefice come Innocenzo III (1198-1216), mediante l’osservazione, sapeva bene che quella della luna fosse soltanto una luce riflessa dal sole, nonostante la Genesi descrivesse «due luci grandi» (Gen 1, 16).

Contro il pregiudizio ideologico della storiografia dapprima protestante, poi illuministica e infine scientista di un passaggio traumatico dalla non scienza dell’età antica al metodo sperimentale della modernità, che tralascia e oltrepassa la «grande interruzione» dei ‘secoli bui’, l’indagine storica ed epistemologica condotta da Hannam sulle radici medievali della scienza moderna ha dunque il grande pregio di mostrare attraverso le fonti una storia troppo spesso misconosciuta di uomini che, mediante la fatica dello studio e della ricerca, hanno contribuito notevolmente al lento e graduale evolversi della conoscenza scientifica.

Fonte: Il Timone (Rivista mensile di informazione e formazione apologetica)

 

Please follow and like us: