«La medicina non è l’arte della felicità; è l’arte di proteggere la vita», scrive il venerabile Jérôme Lejeune, di cui sono state riconosciute le virtù eroiche. È nel solco di questa lucida e profonda consapevolezza che si è svolto a Roma un convegno internazionale di ampio respiro scientifico, allo scopo di analizzare le principali sfide bioetiche contemporanee alla luce del pensiero e dell’eredità del grande medico e scienziato francese, in occasione del 30° anniversario della sua nascita al cielo nel 1994. Si tratta di tutelare e promuovere in ogni circostanza la dignità della persona, costantemente minacciata dalle stesse conquiste biotecnologiche, tra le quali in particolare la modifica genetica degli embrioni umani a scopo terapeutico o di miglioramento; la diagnosi prenatale, le tecniche di riproduzione assistita, la maternità surrogata e l’utero artificiale; l’embrione con ‘tre genitori’ e le sfide della biologia sintetica; l’eutanasia e le cure palliative neonatali; la disforia di genere e il trattamento ormonale dei minori.
«La diagnosi prenatale richiede uno sguardo di apertura all’atteso, non di discriminazione»,afferma Maria Luisa di Pietro – professore associato di Medicina Legale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e direttore del “Centro Ricerca e Studi sulla Salute procreativa” – intervenendo nel merito dell’etica medica di questo strumento diagnostico. È necessario infatti un «bilanciamento delle tecniche consentite rispetto ai benefici attesi che sia sempre finalizzato, in caso di riscontro di una patologia dell’embrione, a un progetto di terapia e di cura». La dottoressa osserva che non bisogna mai inviare i risultati dell’esame tramite mail, ma «compito del medico è comunicare la verità con empatia e accompagnare la coppia», contribuendo a «educare il cuore alla preziosità della dignità del piccolo paziente», soprattutto quando si tratta di supportare i genitori nell’elaborazione del lutto rispetto alle aspettative per la vita del figlio.
«In Giappone c’è una politica eugenetica molto forte», una congiura a danno dei feti con sindrome di Down o malformazioni, sulla scia delle barbare sperimentazioni compiute già durante la Seconda Guerra mondiale dal laboratorio Unit 731 ad Harbin che assimilava le cavie ai ‘tronchi’ d’albero negandone l’umanità, ammette Eiichi Momotani, docente dell’Istituto di Ricerca Medica Comparativa Tsukuba-city in Giappone. D’altra parte «il razzismo cromosomico è orribile, come tutte le altre forme di razzismo», dichiarava senza mezzi termini Jérôme Lejeune proprio mentre constatava con amarezza come anche i risultati delle sue ricerche e scoperte in ambito genetico fossero manipolati per effettuare diagnosi in chiave di selezione eugenetica.
«Selezione embrionaria, editing genetico e crioconservazione promettono che ciò che si vuole si può ottenere nell’ottica di un miglioramento permanente della specie». Con queste parole Elena Postigo – membro Corrispondente della Pontificia Accademia per la Vita e direttore accademico della sezione spagnola della Cattedra Internazionale di Bioetica Jérôme Lejeune – approfondisce l’attuale deriva eugenetica del transumanesimo. Tale movimento ideologico «nega la finitezza dell’essere umano e lo considera una macchina perfetta, un homo tecnologicus nell’autopoiesi di sè». Si tratta di una «religione secolarizzata, uno gnosticismo tecnoscientifico» che, in nome del «principio della beneficenza procreativa per le future generazioni», decreta di fatto quali vite siano qualitativamente degne di vivere e quali no sulla base di un rigido riduzionismo materialista. Di qui, nella società che fa della non discriminazione il proprio mantra, si giunge paradossalmente a «una manifesta discriminazione tra ‘sani’ e ‘non sani’» che viola il principio di uguaglianza e, ponendo a proprio «fondamento arbitrario l’autonomia procreativa», genera conseguentemente «un antiumanesimo».
«Occorre recuperare la saggezza antica e la filosofia cristiana non solo per riflettere su quanto già accaduto, ma soprattutto per prevedere a medio e lungo termine i problemi di tali tecnologie ibridate alla corporeità umana», rileva opportunamente Alberto Carrara – preside della facoltà di Filosofia e Coordinatore del Gruppo di Neurobioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum – riflettendo sulle ultime frontiere della neuroetica fino alle sperimentazioni di intelligenza organoide, come la scimmietta di Elon Musk già capace di giocare a Pong.
«Evitare il dolore e curare», diceva Lejeune. Eppure la società preferisce la strada dell’eutanasia, della ‘morte per indifferenza’ e dell’accanimento terapeutico. «Le cure di fine vita vanno piuttosto garantite a tutti, evitando la sofferenza e tenendo conto dei bisogni nel rispetto della dignità della persona», afferma William Sullivan, professore di Medicina dell’University of Toronto e Membro Ordinario della Pontificia Accademia per la Vita. Nello specifico, rispetto al feto come paziente, la medicina autentica ha fatto grandi passi in avanti con la rianimazione e le cure palliative neonatali. A tal proposito Giuseppe Noia – Direttore dell’Hospice Perinatale del Policlinico Gemelli – richiama i risultati positivi di una medicina condivisa che coniuga diagnosi e terapia, personalizzazione del caso, scambio di informazioni e ipotesi di cura in un clima di alleanza terapeutica coi genitori. E in effetti solo «l’amore cambia l’ethos e il modo in cui affrontiamo le cure cliniche», osserva Sullivan. D’altra parte bisogna anche «misurare il dolore del feto» – dato che è ormai acclarato che il bimbo in grembo lo percepisce – in relazione alle terapie adeguate da somministrargli e considerare che «patologie prenatali e disabilità non sono mai un criterio per sospendere le cure», come sottolinea Carlo Bellieni, neonatologo e pediatra dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Senese.
«Una donna pagata per fornire i suoi ovociti, la selezione del sesso, un figlioche non conoscerà mai sua madre e una madre surrogata in California che dovrà separarsi alla nascita dal figlio portato in grembo per nove mesi e acquistato da committenti venuti a prenderlo dalla Cina». A raccontare questa storia, emblematica delle implicazioni etiche della maternità surrogata, è Jennifer Lahl, infermiera di cure critiche pediatriche e fondatrice del Center for Bioethics and Culture Network in California. La Lahl rileva in particolare gli innumerevoli rischi di tale fenomeno su madre surrogata e bambino, tra i quali parto prematuro o gemellare, gravidanza difficile – rischio notevolmente incrementato dal fatto che il patrimonio genetico è differente da quello del bimbo in grembo – e malformazioni del feto. Gli ultimi sviluppi in questo ambito – sempre all’insegna della cosificazione e commercializzazione dell’essere umano, nonché della rottura dell’attaccamento tra madre e figlio che comincia già in grembo – sono uteri e placente artificiali e lo sviluppo della gametogenesi in vitro per produrre ovuli e spermatazoi sintetici nella prospettiva di una completa ectogenesi.
Ma «un embrione è molto di più di un essere biologico», evidenzia Sagrario Crespo, docente di bioetica dell’Universidad Francisco de Vitoria di Madrid. Relativamente alla maternità surrogata, si dice di operare nel rispetto del diritto alla filiazione utilizzando l’interesse del bambino come pretesto per la legalizzazione di questa pratica aberrante, ma in realtà si verifica l’esatto opposto, ossia «un bricolage procreativo per cui è ratificata la violazione del diritto alla filiazione originaria del bambino. Nulla può cancellare in lui lo shock di esser stato oggetto di un contratto, commerciale o gratuito che sia, e l’abuso di essere strappato dalla madre che l’ha portato in grembo», osserva acutamente Aude Mirkovic, docente di Diritto Privato all’Università di Parigi-Saclay.
Mostrando i dati sulla disforia di genere negli Stati Uniti, Alfonso Oliva – chirurgo plastico e ricostruttivo a Washington – testimonia come la transizione di genere non favorisca affatto il benessere psicofisico dei pazienti, sebbene la narrazione ideologica diffusa dai media propagandi il contrario. «Chi assume ormoni ha un rischio 18 volte superiore di sviluppare un cancro e i bloccanti la pubertà incidono in maniera negativa pesantemente sulla crescita ossea e sulla fertilità»; chi si sottopone a interventi per la transizione di genere ha ricadute irreversibili sul piano fisiologico, tra le quali «ritenzione, incontinenza urinaria, necrosi ed ematomi agli organi genitali (il tasso di complicanze postoperatorie è infatti del 70% e richiede spesso altre operazioni)» e su quello psicologico, quali depressione, abuso di alcol e droghe, tentativi di suicidio. La medicina di genere sottende in effetti una falsa antropologia, quella per cui la natura umana sia modificabile sulla base della propria volontà e autodeterminazione. «È necessario invece andare a fondo nell’indagine dei problemi che caratterizzano il naturale corso dello sviluppo psicofisico degli adolescenti senza ascriverli subito alla disforia di genere», nella consapevolezza che «le terapie affermative non rappresentano la strada giusta», aggiunge Tasio Pérez, docente di Psicologia e di Bioetica dell’Universidad Francisco de Vitoria di Madrid.
«La scoperta della trisomia 21, l’amore per la medicina ippocratica sempre al servizio del paziente, la carità nel dire la verità, la denuncia dell’eugenetica come finta compassione, il merito di aver fatto uscire la genetica dalla pediatria per farne una disciplina a se stante» costituiscono il lascito scientifico fondamentale di Lejeune, fa notare infine Aude Dugast, postulatrice della sua causa di canonizzazione. Allora dinanzi alle sfide bioetiche attuali, nel solco della viva eredità scientifica, umana e spirituale dell’insigne Venerabile medico francese, con le sue parole, «cosa possiamo fare contro le bugie? Mostrare la verità».
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana