La carità è anzitutto «una buona disposizione dell’anima, per la quale essa non antepone niente di ciò che esiste alla conoscenza di Dio». È quanto sostiene San Massimo il Confessore ne Le centurie sulla carità, quattrocento brevi massime sulla virtù teologale per eccellenza raccolte in Sulla carità, nuovo volume della collana “I Talenti” delle Edizioni Studio Domenico e delle Edizioni San Clemente con un prezioso saggio introduttivo sull’apátheia di padre Giorgio Maria Carbone.

Probabilmente di provenienza palestinese, a causa dell’invasione persiana, san Massimo il Confessore raggiunge Costantinopoli nel 614, dove frequenta gli studi letterari e filosofici. Divenuto monaco, ha sant’Atanasio come discepolo e compagno. Strenuo difensore dell’ortodossia della fede e acuto teologo, combatte fino al martirio in modo particolare l’eresia monotelita, la quale sosteneva la presenza di un’unica volontà nella persona di Cristo.

«Padre di ogni male» nell’uomo è l’amor proprio (filautía), definito da san Massimo quale «riprovevole movimento dell’anima contro natura», laddove la carità consiste in special modo nel riconoscimento del primato di Dio. Quando ciò non accade abbondano i pensieri vacui e inutili, per cui si finisce col lottare con il proprio fratello per il possesso dei beni materiali. Gola, amore per il denaro e vanagloria sono alla scaturigine di ogni altro vizio, per cui devono essere fermamente contrastati da un sapiente distacco dalle realtà terrene, dall’umile conoscenza di sé e dalla fiducia nella potenza divina. Sul piano operativo, infatti, «l’attività nascosta distrugge la vanagloria; attribuire le buone azioni a Dio distrugge la superbia». In tale prospettiva il distacco e l’imperturbabilità dell’anima dinanzi alle passioni carnali costituiscono il principio della perfetta carità.

Nel solco della riflessione aristotelica san Massimo il Confessore ritiene le passioni quali «accidenti che alterano», per cui occorre combatterle con l’esercizio delle virtù, altrimenti esse «dividono l’uomo nel suo intimo e impediscono che sia microcosmo e immagine di Dio», come scrive padre Carbone nel saggio introduttivo. Pertanto è necessario per l’uomo imitare il suo Creatore che è senza passioni, e nel contempo custodire per grazia la libertà interiore, al fine di vivere nella carità fraterna per gustare sin da ora i beni eterni a partire da una più profonda conoscenza dei misteri divini. Come «la mente continua a dilatarsi nelle cose in cui si trattiene», così l’uomo viene divinizzato dal Padre celeste proprio nella misura in cui «ha una mente inchiodata all’amore di Dio» e si lascia agire dalla grazia trasformante e santificante dello Spirito Santo.

Di qui se l’anima che si lascia dominare dalle passioni «è impura, piena di pensieri di concupiscenza e di odio, chi custodisce il corpo dai piaceri lo ha come compagno per servire al bene». Una mente pura è infatti attratta naturalmente tramite la carità alla conoscenza dei divini misteri, perché «si aderisce pienamente a ciò che si ama». Dunque «chi ama Dio vive in terra una vita angelica, digiunando, vegliando, salmeggiando, pregando e pensando sempre bene di ogni uomo». Nello stesso tempo, amando il prossimo con carità perfetta, «non scinde l’unica natura degli uomini secondo le loro diverse disposizioni, ma ama ugualmente tutti gli uomini».

Nel cammino di purificazione giocano un ruolo fondamentale l’umiltà e la sofferenza, in quanto «l’una recide le passioni dell’anima, l’altra quelle del corpo». Anche la mitezza è una virtù significativa, nella misura in cui consente di mantenere «imperturbata la parte irascibile». È  chiaramente soprattutto la pratica dei comandamenti a permettere alla mente di spogliarsi dalle passioni, mentre la contemplazione spirituale delle cose visibili le consente di abbandonare «i concetti passionali delle cose». Quest’ultima considerazione di San Massimo il Confessore è particolarmente preziosa e lungimirante anche rispetto al contesto attuale nel quale si guarda ai beni terreni quasi esclusivamente per goderne sul piano materiale, e non con quello spirito di scienza in grado di cogliere piuttosto in ogni realtà terrena una manifestazione tangibile dell’amore del Padre. E in effetti, prosegue il fine teologo, «per mezzo di queste come tramite degli specchi comprendiamo la Sua bontà, la Sua sapienza e la Sua potenza sconfinate», ossia le vestigia trinitarie in tutta la realtà creata.

Se la ragione è nell’uomo una scintilla del Logos divino che è il Verbo, egli ritiene dunque che la creatura a immagine del Figlio viva in conformità a tale facoltà «quando la sua parte concupiscibile si distingue per la continenza; quella irascibile, cacciato l’odio, persiste nella carità; e quella razionale, mediante la preghiera e la contemplazione spirituale, vive rivolta a Dio». Pertanto se asseconda la ragione illuminata dalla grazia l’uomo può riuscire a vivere in pienezza il duplice comandamento dell’amore, gustando e godendo di quella carità perfetta che «mantiene inestinguibile lo splendore della tua anima», dal momento che «chi possiede la carità possiede Dio stesso».

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

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