C’era una volta la famiglia, oggi ci sono invece la “famiglia tradizionale” e le “famiglie arcobaleno”. Mediante l’aggiunta di aggettivi accanto al sostantivo famiglia che non sembrano modificare più di tanto il referente concreto di un termine, viene stravolto invece un significato originario e la “società naturale fondata sul matrimonio” si trova di fatto a essere equiparata ad altre forme di unioni che famiglia non sono. È sufficiente un semplice aggettivo e il gioco è fatto. Alcuni parlano di “gestazioni per altri”, altri semplicemente di “gestazione di sostegno”, mentre coloro che sono maggiormente ancorati alla realtà preferiscono l’espressione più rude di “utero in affitto”. Tuttavia la cosa designata, l’azione di compravendita di un organo dell’apparato riproduttivo femminile, cui tali espressioni alludono, è la medesima. Talvolta basta una perifrasi, breve o lunga che sia, e la realtà appare sfocata, mascherata, e dunque misconosciuta.
In questo modo il political correct esercita il suo potere e, attraverso i media di cui dispone, preferisce parlare, per restare all’ultimo esempio citato, di “gestazione per altri”, di “gestazione di sostegno”, nel tentativo di ammantare di nobiltà una pratica barbara, dal momento che la maternità surrogata prevede l’affitto dell’utero femminile e sfrutta la condizione di bisogno di molte donne, comprandone la dignità. Quella dignità inviolabile che il filosofo illuminista Kant sosteneva non avere prezzo.
«La parola è un gran dominatore che, con un corpo piccolissimo e invisibile, sa compiere cose straordinarie; riesce infatti a calmar la paura, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentar la pietà (…). La forza dell’incantesimo, accompagnandosi all’opinione dell’anima, la seduce e la persuade e la trasforma per mezzo del suo incanto». Ne era consapevole il sofista Gorgia quando nel V sec. a. C. celebrava la forza della parola nel suo Encomio di Elena, opera in cui si sforzava di ricercare tutte le giustificazioni possibili per scagionare la moglie di Menelao rapita da Paride dall’aver causato la guerra di Troia. Eppure contro tale uso retorico della parola si scagliò duramente forse il più grande filosofo di tutti i tempi, che denunciò tale capacità subdola del linguaggio «di render forte il discorso debole». Platone contrappose infatti all’uso sofistico del linguaggio una teoria differente, secondo cui le parole hanno il compito fondamentale di tradurre in fonemi significanti quei modelli immutabili ed eterni della realtà, cioè le idee, di cui le cose sono copia. Tale concezione platonica del linguaggio fu poi ripresa anche nel Medioevo nella corrispondenza stabilita fra tre livelli ontologici distinti: l’ordine della realtà, l’ordine delle idee e quello delle parole. Insomma ogni parola fa riferimento a un concetto, il quale a sua volta rimanda alla cosa. Un realismo molto semplice, radicato nel senso comune, ripreso dalla tradizione filosofica classica e utilizzato dagli scienziati come dai bambini quando fanno nuove scoperte, perché conforme alla natura stessa dell’essere delle cose.
La dittatura del pensiero unico, con le sue mistificazioni linguistiche, vuol farci credere piuttosto che questo metodo realista sia ormai obsoleto, che il senso comune inganni, che le cose non siano mai state o comunque non siano più comprensibili in questi termini. La neolingua non vuole guardare la realtà delle cose di cui parla, né dire la verità, anzi vuole coprire intenzionalmente l’una e l’altra con una menzogna che non risulti mai banale, formalmente corretta, meglio ancora se pseudo-scientificamente acclarata, in modo da essere difficilmente smascherabile nella sua falsità.
Il nuovo linguaggio inventa così false contrapposizioni logiche. Ai pro-life dovrebbe contrapporre i pro-dead e invece ecco coloro che sono pro-choice e il gioco degli abortisti è compiuto. Come se la maternità non fosse una scelta, come se l’unica ‘scelta’ che tuteli la libertà della donna sia quella di abortire.
«Parole dette per non dire quello che si ha paura di dire» – questa è l’antilingua – volendo citare il celebre romanzo 1984 dello scrittore George Orwell. Un linguaggio talvolta costitutivamente ossimorico, che parla di “aborto terapeutico”, quasi che l’uccisione di un essere umano possa essere considerata alla stregua di una terapia. Ma per chi? Certamente non per il bambino, cui viene preclusa la possibilità di nascere, né tanto meno per la madre che, nella stragrande maggioranza dei casi, subirà sulla propria pelle le conseguenze traumatiche della sindrome postabortiva. Allo stesso modo la legge 194 è tutta fondata sull’antilingua. Essa non parla tanto di aborto, ma preferisce celarsi dietro la sigla asettica di IVG, di “interruzione volontaria di gravidanza”; non parla né di madre, né di figlio, ma genericamente di donna, concepito, feto e con ironia tragica di nascituro, in riferimento al figlio che non nascerà. Questa legge del 22 maggio del 1978, menzognera fin nel suo titolo, si propone di offrire “norme per la tutela sociale della maternità”, ma, di fatto, non concede nulla affinché una madre sia aiutata ad accogliere il proprio figlio e siano rimosse le cause che la spingerebbero a ricorrere all’aborto. Anzi se la madre vuole abortire, il servizio sanitario nazionale nella sua generosità si dichiara pronto ad accollarsi senza problemi l’onere delle spese dell’intervento chirurgico. Inoltre se la realtà mostra palesemente che prima di ogni embrione non esistono che i gameti (gli spermatozoi e l’ovocita); pur di contraddire la realtà, ecco che ci s’inventa una nuova categoria, quella di pre-embrione. Lo scienziato che formulò la teoria del quattordicesimo giorno così si espresse: «Non c’è dubbio che sin dal concepimento si sviluppa un essere umano, ma risulta utile stabilire un termine convenzionale che ci permetta di poter effettuare studi scientifici». Insomma la ‘nobiltà’ del fine giustificherebbe non solo i mezzi illeciti, ma anche la considerazione meramente strumentale della stessa persona umana. Ben venga dunque per gli antilinguisti il pre-embrione, soprattutto se può esser anche funzionale a vendere scatole di pillole abortive come banali contraccettivi. Purché si rimpinguino le casse delle case farmaceutiche, si può anche far passare sotto silenzio quel primo viaggio dalla tuba all’utero che ciascuno ha compiuto nella prima settimana della propria esistenza e che risulta essenziale per la sua crescita successiva.
I bugiardini della pillola estroprogestinica, di quella “del giorno dopo” e di EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo, parlano chiaro. Si soffermano esclusivamente sull’effetto che tali pillole possono avere nell’impedire il concepimento, mentre trascurano quello che esse riporterebbero a fecondazione già avvenuta. In tal caso, rendendo inospitale l’endometrio della parete uterina, non consentono di fatto l’annidamento di una creatura che ha già circa sette giorni di vita. Quest’effetto abortivo viene omesso intenzionalmente, affinché l’animo della potenziale madre non venga turbato, anzi, sia rinfrancato dalla presunta scientificità del foglietto illustrativo. Così ella potrà liberarsi del suo eventuale figlio a cuor leggero, senza nemmeno accorgersene, buttando giù una pillola con un bicchier d’acqua.
Tale uso antilinguistico delle parole nasce dunque da una sorta di terrore semantico e si nutre della paura, perciò dice e nel contempo smentisce o afferma mezze verità, delineando un perimetro in cui «i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo ad una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dir niente o vogliono dire qualcosa di vago e di sfuggente» (I. Calvino, in un articolo apparso su «Il Giorno» il 3 febbraio 1965).
Questa paura per i significati autentici delle parole si ritrova anche nella perifrasi “procreazione medicalmente assistita” sintetizzata nella sigla PMA. Di pro-creativo, di generazione al servizio di un Creatore, c’è poco e nulla. Si tratta in realtà di una fabbricazione artificiale e artificiosa dell’umano, medicalmente sostituita, in quanto è il medico il protagonista assoluto, il supervisore e l’addetto alla mescolanza dei gameti. Dal sesso senza figli della contraccezione si passa così ai figli senza sesso voluti ad ogni costo con il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale, scindendo nel primo caso la sessualità dalla fecondità e nel secondo la fecondità dalla corporeità.
Relativamente al fine vita la logica antilinguistica è la stessa: si parla di “eutanasia”, ma la “buona morte” non allude a quella del moribondo che, ricevuta l’estrema unzione, chiude gli occhi nella beata speranza di riaprirli al cospetto del suo Salvatore. Anche l’espressione “lasciar morire”, peculiare della biopolitica, di un potere statuale onnipervasivo che pretende di farsi carico della vita e della morte dei suoi cittadini, distoglie colpevolmente l’attenzione dal soggetto che compie materialmente l’azione, staccando la spina o facendo un’iniezione letale. In tale contesto mortifero anche la compassione viene snaturata nel suo significato autentico di cum-pati, cioè di soffrire insieme, facendosi carico della sofferenza altrui, lenendo il dolore con più amore. Così la lingua si ritorce nuovamente contro se stessa in ossequio a un’ideologia che, pur di costringere la realtà entro le proprie maglie, preferisce fregarsene della realtà.
Come ogni ideologia che si rispetti, la stessa ideologia del gender ha adottato la medesima logica. Ha sostituito all’identità sessuale il genere, al dato biologico il fattore culturale, denigrando contestualmente come “omofobo” chiunque si azzardi a sostenere pubblicamente, pur non discriminando le persone con tendenze omosessuali, che maschi e femmine si nasce e non si diventa.
Alla luce di questi ragionamenti appare evidente che ogni falso mito di progresso è innanzitutto il frutto di una mistificazione linguistica della realtà tesa a scardinare il senso comune e la verità delle cose. Rimanendo in una dialettica antilinguistica in cui le parole non dicono quello che dicono, possiamo concludere infine con una buona dose d’ironia e qualche infingimento neanche troppo surreale che nella cultura dominante ne uccide più la lingua che la spada.
Fonte: La Croce Quotidiano