Come si è passati dalla Cristianità alla modernità; dalla Christianitas medievale all’Europa contemporanea laicista? Questa domanda è al centro de Le radici della modernità (2021, pp. 184), una raccolta di saggi del filosofo giusnaturalista spagnolo Francisco Elías de Tejada tradotta in italiano per Solfanelli e con una preziosa introduzione del professor Giovanni Turco.
Tale passaggio è contraddistinto da tre tappe peculiari, differenti sì sul piano storico, ma sostanzialmente affini su quello ideologico. L’avvento del Protestantesimo, l’imporsi del Giacobinismo e della Rivoluzione francese, la nascita del Marxismo segnano infatti tre svolte epocali e, nello stesso tempo, sono però anche il frutto di un unico processo rivoluzionario che ha comportato il passaggio traumatico dalla Cristianità alla modernità, in forza del quale «la democrazia equalizzatrice ha sostituito l’ordinamento gerarchico dei valori».
Procedendo su questa scia, secondo le parole profetiche del filosofo giusnaturalista, «l’Europa verso cui stiamo andando è marxista, perché ciò che conta è l’economia, essendo indifferente la fede in Dio o la giustizia tra gli uomini; ecco perché inizia con il Mercato Comune, con il mercato dei cambi e degli scambi. È atea, perché i popoli che la formano, pur essendo tutti cristiani, hanno deliberatamente eliminato Cristo dalla vita sociale, dal momento in cui hanno anteposto la professione di fede nella libertà dell’uomo alla professione di fede negli insegnamenti del Redentore, ponendo il divino sotto l’umano, la Verità di Cristo sotto la libertà degli uomini, il teocentrismo sotto l’antropocentrismo, le certezze del Vangelo sotto le opinioni degli individui».
Al contrario la Cristianità è una fede militante «che smuove perché commuove; nacque dalla passione posta al servizio di Dio». Perciò «la civiltà della tradizione cristiana – come scrive Turco rileggendo de Tejada – ha il senso vivo della libertà, nella concretezza di consuetudini e di diritti, nella connessione delle finalità, onde il bene è misura e contenuto della libertà. La Cristianità reca in sé la tensione verso l’unione sulla base di fattori essenziali: religiosi, intellettuali, morali. Essa è unitiva senza essere unitaria, universalistica piuttosto che mondialistica». È il riflesso della civitas Dei di agostiniana memoria e si estende da Carlo Magno a Carlo V, abbracciando anche figure di sovrani ispanici tra i quali in particolare Filippo II e Carlo II. Tuttavia, sul piano storico, l’offuscamento del prestigio del papato e dell’autorità imperiale, le lotte intestine tra i due poteri e la caduta del papato nelle mani dei re di Francia hanno lentamente eroso la Cristianità, mentre soggettivismo e antropocentrismo l’hanno traghettata progressivamente, attraverso un costante processo di secolarizzazione, verso la sua negazione, ossia l’Europa moderna nata «dal capitalismo liberale destinato a creare ricchezza e dall’egualitarismo socialista finalizzato a distribuirla secondo i canoni di quell’idea di ‘giustizia sociale’ tanto stupida fin dal superfluo aggettivo, come se esistesse una giustizia che non fosse sociale per propria stessa essenza!». Un’Europa che ha come ‘padri’ Lutero in ambito religioso, Hobbes in ambito giuridico, Bodin in ambito politico, Machiavelli in ambito etico, il quale fa coincidere la virtù con la scaltrezza necessaria a conservare il potere. E in effetti con la visione protestantica si passa sostanzialmente dal primato di Dio a quello dell’uomo.
Secondo l’analisi tejadiana, le radici del giacobinismo sono rinvenibili nella teorizzazione della volontà generale di Rousseau da intendersi non quale volontà di tutti bensì come volontà del tutto, cioè di uno Stato che si identifica con la ‘minoranza illuminata’ di un popolo, la quale si arroga il diritto di rappresentare anche la maggioranza, incapace di esprimere ciò che sia conveniente per se stessa. Insomma gli unici virtuosi che possono comandare sono soltanto i giacobini. In tale prospettiva il filosofo ginevrino si rivela come «il profeta democratico che annuncia l’avvento del messia Robespierre». E in effetti «i giacobini non governano né per la Francia, né per il popolo francese. Hanno diritto a tutto; i non giacobini non hanno altro diritto che quello di morire sulla ghigliottina. I giacobini saccheggiano proprietà, rubano nei templi, impongono tasse ai nemici, sequestrano la ricchezza pubblica e privata. L’impunità ufficiale per i dittatori giacobini equivale al terrore per i loro nemici. Così si uccide la libertà in nome della libertà e la tirannia dei pochi schiaccia la volontà dei più».
Elías de Tejada ritiene si sviluppi in questo modo ogni teoria egualitaria e individua un legame tra giacobinismo e marxismo sulla base di tre aspetti: «primo, la comune discendenza rousseauiana che sfocia in un sistema politico totalitario; secondo, l’identificazione quasi religiosa di una minoranza di illuminati con la classe o con il popolo, disposti a imporre le proprie idee con disprezzo della maggioranza, e terzo, la creazione di un ordine tirannico, mantenuto dalla violenza dell’oppressione forzata».
Da queste tendenza non è immune neanche l’ipertrofia dell’io tipica del razionalismo e del liberalismo moderno. La deriva totalitaria, per il giusfilosofo spagnolo, emerge nella misura in cui l’individuo è lasciato solo di fronte al potere che gli propina modelli valoriali cui uniformarsi. Egli intuisce che anche la cibernetica sia di fatto un’altra forma di «teoria totalitaria dello Stato» con il dominio dell’informatica per il controllo sociale. Se ogni rivoluzione è la «secolarizzazione della felicità e la sostituzione della rivelazione divina con un mito creato dalla ragione umana», allora c’è un giacobinismo, «religione dell’uomo che si è fatto dio», incarnato ieri come oggi «da marionette e burattinai delle logge, banchieri liberali, vescovi non credenti, marchesi comunisti, uomini d’affari che finanziano giornali socialisti, democrati della falsità».
L’alternativa giuridica, morale e politica a ogni deriva totalitaria è allora rappresentata, per dirla con il professor Turco nel suo commento alla riflessione tejadiana, da una valorizzazione dell’ontologia e della teleologia classica improntata all’indagine speculativa di San Tommaso d’Aquino. Essa, presupposta «la naturale razionalità e politicità del soggetto umano ed il bene comune come fine obbiettivo della comunità politica, riconosce il primato della giustizia – quindi del diritto naturale classicamente inteso – come fondamento del diritto positivo che richiede la prudenza politica come criterio prossimo dell’esercizio dell’autorità».
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana