«Sono madre di martiri e sono orgogliosa di loro. In cielo intercedono per me e per il loro padre», dice la madre di Samuel e Beshoy, due dei ventuno giovani cristiani copti decapitati brutalmente dall’Isis il 15 febbraio 2015 sulla spiaggia di Sirte in Libia. E, riguardo ai carnefici dello Stato Islamico, prega Dio «che li illumini e apra i loro occhi alla verità e al bene».
Muovendo dal «più grande caso di martirio cristiano del nostro tempo» (Anba Macarius), il volume I 21 (Cantagalli 2022, pp. 264) di Martin Mosebach ripercorre la storia gloriosa del cristianesimo copto. Attraverso un reportage che si snoda tra incontri e dialoghi toccanti con le famiglie di tali giovani e i rappresentanti del clero copto, si delinea il carisma e la missione di questa ‘Chiesa dei martiri’: contribuire a testimoniare con la coerenza della vita la fede e la liturgia del cristianesimo antico che affonda le proprie radici nella predicazione di San Marco, laddove l’Europa ha invece reciso ogni riferimento pubblico alla propria fede e tradizione culturale cristiana.
Il vescovo metropolita di Samalout non esita infatti a riconoscere in ogni famiglia copta «lo stesso atteggiamento verso la Chiesa, la stessa fortezza e la medesima disposizione verso il martirio», per cui «nessun copto nell’Egitto settentrionale tradirebbe la fede».
‘Messaggio alla nazione della Croce, scritto col sangue’ è il titolo del video in inglese dell’esecuzione diffuso dai fondamentalisti islamici, rispetto al quale lo stesso vescovo rileva che «se gli assassini avessero immaginato quale significato avrebbe avuto per la Chiesa copta, non lo avrebbero probabilmente realizzato. Ben lontano dall’intimidirci, esso ci fa coraggio. Ci ha offerto il documento della fortezza eroica dei martiri e una dimostrazione della forza della loro fede attraverso la preghiera nei loro ultimi istanti di vita».
In Egitto i copti sono sì una minoranza, ma costituiscono «un quarto della popolazione, stando ai registri ecclesiastici che riportano i battesimi», eppure i loro diritti sono costantemente calpestati dalla maggioranza islamica. Il presule precisa ancora che «la Chiesa fa ciò che il governo non può fare», alludendo alla costruzione di scuole cristiane e soprattutto di un ospedale cristiano, il più grande e moderno di tutto l’Egitto settentrionale, con molti medici anche musulmani.
Dopo la decapitazione dei ventuno giovani copti sulla spiaggia libica, il governo di Al-Sisi ha voluto che si edificasse un’imponente ‘Chiesa dei Martiri della Fede e della Patria’ a El-Or. Qui sono venerate le reliquie mortali di tali martiri, mentre «le case molto povere in cui essi sono nati e cresciuti di mattoni e argilla furono quasi del tutto demolite con l’aiuto dello Stato, per essere sostituite da case nuove», un vero e proprio indennizzo alle famiglie che, con la morte dei propri cari, hanno perso anche una parte cospicua dei proventi per il proprio sostentamento. I ventuno erano giunti in Libia proprio per lavorare e «vivevano in un’unica grande stanza, dove dormivano uno accanto all’altro, per terra, neanche una moneta fu spesa per divertimento, tutto andò ai genitori e alle mogli. Quando erano insieme alla sera, erano impegnati nel cantare e pregare; chi poteva leggeva la Bibbia agli altri», raccontano i sacerdoti che li hanno conosciuti.
«Dedicava molto tempo ad aiutare i ‘fratelli del Signore’ (i poveri)»; «Dormiva con la Bibbia sul petto. Pregava e osservava rigorosamente i digiuni»; «Il suo cuore era semplice e puro, ed era umile nelle sue parole»; «Era compassionevole e cercava di aiutare gli altri»; «Era un uomo del silenzio anche quando veniva aggredito» sono solo alcune delle testimonianze raccolte dalla viva voce dei loro familiari, rispettivamente di Bishoy, Malak, Gaber, Girgis (il maggiore) e Mina. Tra i ventuno vi era anche Matthew, giovane ghanese accomunato al battesimo di sangue dei copti per aver affermato semplicemente la propria fede: «Io sono cristiano».
Non solo preghiera, silenzio e carità verso il prossimo, ma anche onestà, semplicità e vita umile sono i tratti distintivi di questi giovani martiri. A Tawadros, 46 anni, il più anziano dei ventuno, viene raccomandato di cambiare il nome cristiano Teodoro una volta in Libia per non dare troppo nell’occhio, ma egli con estrema schiettezza replica: «Chi incomincia a cambiare il proprio nome, alla fine cambia anche la propria fede», come racconta sua moglie. La giovane vedova di Samuel, 28 anni e tre figli, racconta che il marito si premurava, al termine di ogni telefonata dalla Libia, che la sua famiglia pregasse. «Il ventiseienne Milad non rinunciava ai suoi digiuni pur con il suo pesante lavoro agricolo e contro il consiglio del parroco, al quale rispondeva: “L’uomo non vive di solo pane”». Con un’immagine in mano del figlio Samuel, in cui egli «appariva con grandi occhi da icona e il volto sereno», sua madre ricorda che lo stesso giovane soleva ripetere: «“Io sono il figlio del Re”. A dodici anni una pietra, dal terzo piano, lo aveva colpito in testa. Mentre si trova in terapia intensiva gli appare la Santa Vergine che gli dice: “Non temere” e subito si ritrova guarito».
Relativamente al loro martirio, «il padre di Malak, un contadino grosso, allegro, nella notte dopo l’uccisione riferì di aver assistito a questo fenomeno: nel cielo scuro era apparsa una intensa luce bianca ‘come da cannone laser’. Lui e i vicini l’avevano vista ancor prima che giungesse la notizia della morte dei loro figli». Tali fatti prodigiosi proseguono anche dopo la loro morte. Basti citare che il figlio piccolo di Samuel cade dal secondo piano e si frattura un braccio, ma «quando si desta dallo svenimento, riferisce che suo padre lo ha afferrato al volo, e dopo pochi giorni, sulla radiografia non si vedeva più traccia di fratture». La madre di Ezzat ha un colpo apoplettico e, dopo aver sognato suo figlio imporre le mani su di lei, si ritrova guarita.
Nel corso del volume l’autore ripercorre anche la storia delle tradizioni culturali e cultuali della Chiesa copta, tra cui i motivi teologici, in parte oggi superati, sottesi alla separazione dalla Chiesa di Roma col concilio di Calcedonia del 451 per la tesi secondo cui «divinità e umanità di Gesù sono unite in un’unica natura». Rispetto alle peculiarità della liturgia copta, Mosebach segnala in particolare la pratica di individuare, tra molteplici pani cotti la notte precedente la celebrazione della Messa, un pane perfetto che, dopo esser stato unto con acqua e vino, viene benedetto e legato alla fronte del celebrante che gira intorno all’altare quale segno della processione dell’Agnello.
Quella dei cristiani copti è in sostanza una fede radicale, che genera una ‘Chiesa dei martiri’ consapevole della propria vocazione sin dai tempi delle persecuzioni di Diocleziano, come testimonia la replica che Malak dà al suo parroco nell’ultimo dialogo prima della partenza per la Libia. Il parroco gli aveva ricordato che si poteva rendere testimonianza a Cristo con una lunga vita di fede, non necessariamente con la morte, ma egli risponde: «Questo non mi basta, io voglio farlo attraverso la morte». Una parola profetica del desiderio vivo dei ventuno e non solo di testimoniare Cristo fino alla fine, preludio della loro gloria in Dio.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana