«Salì al monte a pregare, per insegnarci che, quando preghiamo, dobbiamo distaccarci dal tumulto delle cose terrene per volgere lo sguardo a quelle celesti. Ma il monte Oliveto – coltivato a ulivi – ha in sé anche un suo arcano significato. Il ramo di ulivo era comunemente simbolo di pace: quella pace che Cristo sarebbe venuto a portare fra gli uomini, ricomponendo il lungo dissidio che li separava da Dio. E inoltre, l’olio, spremuto dall’oliva, simboleggia l’unzione dello Spirito che Cristo, ricongiunto col Padre, avrebbe mandato ai discepoli, perché li rendesse capaci di affrontare quelle cose che solo un istante prima di quell’unzione non sarebbero stati in grado di reggere». Così scrive Thomas More Nell’orto degli Ulivi (Edizioni Ares 2023, pp. 184), rivelandosi anche quale fine esegeta nell’opera iniziata nel 1534, ossia mentre egli vive la prigionia nella Torre di Londra e attende la decapitazione per non avere dato il suo assenso al divorzio di Enrico VIII e, di conseguenza, allo scisma della Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa cattolica.
Scritta nel 1534 e nota anche come Expositio Passionis Domini, l’opera è il testamento spirituale di uomo di Dio che vive il tempo della prova e dell’abbondono come un momento di più intima comunione con Cristo, con quel Gesù abbandonato persino dagli amici più fidati nel giardino del Getsemani.
Marito affettuoso e padre di sei figli, amico gioviale, uomo di cultura e scrittore fecondo, brillante avvocato generoso verso i poveri, chiamato alla più alta carica del Regno d’Inghilterra, san Tommaso Moro muore martire per custodire l’integrità della sua fede. Sua moglie Jane, con la quale genera quattro figli, muore a soli ventitré anni, per cui egli si risposa con la vedova Alice. Erasmo da Rotterdam, che frequenta la sua casa, ne racconta l’amabilità coi familiari e la disponibilità all’accoglienza. Di qui, quando un incendio brucia gran parte dei granai di famiglia – come ricorda Carlo De Marchi nell’introduzione – scrive alla moglie: «Non perdere il buonumore e di portare tutti quei di casa in chiesa e di ringraziare Dio sia per quello che ci ha donato sia per quello che ci ha tolto, e per quello che ci ha lasciato che, se a lui piacerà, ci potrà accrescere». Uomo di profonda ironia, scherza anche sul proprio cognome, si definisce «un mezzo pagliaccio o poco più»; crede che il Cielo stesso sia un «eterno raccolto di risate». Consigliere irreprensibile, quale cattolico coerente non può prestare giuramento di fedeltà a Enrico VIII dopo il divorzio del sovrano e lo strappo dalla Chiesa di Roma, per cui ne paga in prima persona le conseguenze prima col carcere, poi con la condanna a morte. Perciò è stato proclamato a buon diritto patrono dei governanti e politici.
Molto toccanti le ultime parole che scrive alla figlia poche ore prima dell’esecuzione: «I tuoi modi nei miei confronti non mi sono mai piaciuti tanto come quando mi hai baciato l’ultima volta, perché mi piace quando l’amore filiale e la carità affettuosa non hanno tempo di curarsi della cortesia mondana. Addio, mia cara figlia, e prega per me, e io lo farò per te e per tutti i tuoi cari, perché ci possiamo incontrare allegramente in cielo. Grazie di tutto quanto hai fatto per me». Infine, come ricorda ancora De Marchi, il condannato non perse il buonumore neppure sul patibolo, tanto da chiedere aiuto a chi lo accompagnava per salire i gradini e “poi per scendere lasciate pure che mi arrangi da solo”, e da raccomandare al boia di avere cura, nel decapitarlo, di non tagliare la barba “che non era colpevole di tradimento”».
Nella sua esegesi egli si sofferma sul fatto che Gesù trascorre spesso la notte in preghiera. Di qui «se anche noi sapessimo qualche volta scuoterci dalla pigrizia se volessimo richiamare alla mente quelle veglie di Cristo e, anche solo per qualche istante, reagissimo all’indolenza e volgessimo a Lui un pensiero di riconoscenza e la preghiera di accrescere in noi la sua grazia; se volessimo abituarci a fare anche solo quel poco – prosegue More – sono convinto che Dio farebbe in breve fruttificare nella nostra anima un buon raccolto spirituale».
Gesù prende con sé in particolare tre apostoli. E More ne esplicita così il motivo: «Pietro era il primo degli Apostoli per l’ardore della sua fede, Giovanni per la sua purezza, Giacomo sarebbe stato il primo a subire il martirio in nome di Cristo». Il Maestro li «aveva già temprati, corroborandoli nel tempo con una momentanea folgorazione dello splendore eterno», ossia la sua Trasfigurazione.
L’angoscia che Gesù prova nel Getsemani deriva «da una mole immensa di sofferenza dalla quale egli si sentiva già sovrastato: il tradimento, la consegna agli spietati nemici, l’incarcerazione, le false accuse, le bestemmie, la flagellazione, le spine, i chiodi, la croce e i terribili supplizi prolungati per ore. L’angosciavano inoltre il pensiero dei discepoli atterriti, dei Giudei perduti, della morte disperata del suo stesso perfido traditore e l’indicibile strazio dell’amatissima Madre. Questa tempesta di dolori, che gli piombavano addosso tutti in una volta, inondava il suo tenerissimo cuore come un oceano in piena». E questo per insegnare all’uomo – prosegue il santo inglese illustrando anche il senso morale della Parola – che «Io, fedele alle mie promesse, non permetterò che tu sia tentato al di sopra delle tue forze, ma con la tentazione ti darò anche la capacità di resisterle». Il segreto consiste nell’imparare a pregare, «elevando incessantemente il proprio pensiero a Dio, qualsiasi cosa si stia facendo».
L’invito di Gesù alla preghiera è dunque triplice, per indicare che bisogna «pregare la Trinità, e pregarla per tre cose: il perdono per il passato, la grazia per il presente, la salvaguardia per il futuro». Nel sonno degli apostoli More intravede invece l’indolenza e la pigrizia nell’annuncio e testimonianza del Vangelo da parte di vescovi, che lasciano così colpevolmente che «i nemici di Cristo seminino i vizi e sradichino la fede». E in effetti «ogni volta che il Corpo mistico di Cristo, la Chiesa (e dunque il popolo cristiano), è nell’imminente pericolo di venir consegnato nelle mani degli empi, si avvicina di nuovo il momento in cui Cristo, il Figlio dell’uomo, sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori». Relativamente a Giuda, al di là del tradimento, è «la sua pervicacia» nel male a impedirgli di lasciarsi afferrare dalla grazia per riconciliarsi con Gesù.
Con la cattura di Cristo l’opera purtroppo s’interrompe bruscamente perché al suo autore, nell’imminenza della condanna a morte, vengono tolti persino carta, penna e inchiostro.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana