«Siamo tutti padri putativi. Vuol dire che i nostri figli, prima di essere ‘nostri’, sono figli di Dio, ci sono in qualche modo ‘affidati’». Con questa provocazione critica nei confronti di una cultura contemporanea che ha cancellato la figura del padre, il professor Franco Nembrini – nel suo recente volume Sì (San Paolo, pp. 128) – propone tre sguardi inediti su Maria e Giuseppe attraverso l’arte figurativa e poetica che offrono una prospettiva originale per leggere la quotidianità di padri, madri e figli e l’arte di educare secondo la logica di Dio.
Il proprio sguardo raccoglie lo stupore provato dallo stesso autore dinanzi a L’accettazione della maternità di Maria da parte di Giuseppe, affresco custodito nella chiesa di Sant’Andrea a Spello e attribuito a Dono Doni. Si tratta probabilmente di un unicum fra le rappresentazioni della Sacra Famiglia, in quanto è Giuseppe a sorreggere la madre di Dio in un «umanissimo gesto di accasciarsi». Esso «‘fotografa’ proprio l’attimo decisivo, l’attimo in cui la tensione di Maria si scioglie, l’attimo in cui lei tocca con mano che Dio è fedele alla Sua promessa – perché un conto è saperlo, un conto toccarlo con mano –, che non la lascia sola nel suo compito più che umano. Che Dio l’abbraccia e la sostiene nel suo compito di generare Dio nella carne con un abbraccio e un sostegno carnale. L’abbraccio di Giuseppe. E Maria, consolata, a questo abbraccio si abbandona, certa che è l’abbraccio con cui Dio la raggiunge». Nello stesso affresco Giuseppe ha i colori delle vesti speculari a quelli di Maria rappresentata anche in una mandorla nella gloria del paradiso, i quali sono in effetti gli stessi delle icone della Vergine e del Figlio, il blu per la divinità e il rosso per l’umanità.
Riconoscere che i figli sono ‘miei’ non alla stregua di cose di cui disporre, ma come «qualcosa a cui io appartengo» – come «la mia storia, la terra in cui sono nato, la famiglia da cui provengo: sono ‘mie’, ma non le ho fatte io, le ho ricevute in dono e in custodia» – consente infatti di «mettersi nella posizione giusta per amarli e servirli fino in fondo, nel modo più adeguato». Il presupposto per essere padri e madri autentici è allora quello di riconoscersi, come San Giuseppe, ‘padri putativi’, «gente a cui un Altro ha affidato la vita di altri».
D’altra parte i figli sono creati ‘a Sua immagine’, per cui non bisogna pretendere né che crescano a immagine dei loro padri, né tanto meno secondo l’immagine che ci si fa di essi, per la quale «abbiamo un’immagine di quel che loro dovrebbero essere, e li misuriamo per differenza rispetto a quell’immagine, perché non corrispondono mai all’immagine che abbiamo di loro». Al contrario, proprio perché creati a immagine del Creatore, «dobbiamo accompagnarli a diventare qualcosa che va sempre al di là della nostra misura».
Di qui Nembrini coglie con grande acume il paradosso dell’educazione, «quella cosa che avviene quando non sei impegnato a educare», ossia quando «i nostri figli ci guardano». Il segreto della paternità dunque «non è: “Come faccio a essere padre?”, ma: “Di chi sono figlio?”. Si tratta di mostrare ai figli per Chi davvero vale la pena vivere, imparando a ‘stare’ più che a ‘fare’ come il Padre misericordioso della parabola evangelica. D’altra parte i figli imparano non da mille prediche, ma «dai nostri gesti, dai nostri atti, dagli sguardi che rivolgiamo loro, che ci scambiamo fra mariti e mogli». Perciò l’essenza di ogni padre deve essere la misericordia, ossia la capacità di «abbracciare l’altro per quello che è», senza condizionare il bene che si vuole ai figli al loro essere più buoni o più studiosi. Anche perché, come osserva ancora il professore bergamasco, «uno non cambia mai perché l’altro gli dice: “Sei sbagliato”; uno cambia perché l’altro gli dice: “Sei una cosa grande”, e allora magari gli viene anche voglia di essere all’altezza di questa grandezza».
Naturalmente un bravo educatore fa sempre appello alla libertà, che non è frutto dello spontaneismo e dell’emotività del momento, bensì «una lotta per restare fedeli all’intuizione che ci ha fatto intravedere uno spiraglio di bene, di buono e di vero».
Tornando all’affresco, occorre evidenziare altresì che «abbracciando Maria, Giuseppe abbraccia Gesù che lei porta dentro di sé». Ciò significa che nella carne dell’altro il marito abbraccia la moglie e viceversa e, proprio in tale gesto, accoglie Cristo, in quanto «Gesù che arriva, si fa presente, mi raggiunge attraverso la carne, l’abbraccio della donna o dell’uomo che ho sposato». È quanto testimonia nel canto XXX del Purgatorio lo stesso Dante allorquando annuncia Beatrice con il maschile ‘Benedictus qui venis’, quasi a «identificare Beatrice con Gesù: “Benedetto tu, Gesù, che vieni nella carne di Beatrice”».
Relativamente alla dignità e al ruolo della donna, Nembrini osserva che quest’ultima «ha una capacità di servizio più grande», stando alla prospettiva evangelica che ha reso il servizio «la nuova legge della vita». A sua volta, un uomo che «si senta accolto e sostenuto nel suo bisogno, si mette a sua volta a servizio della donna, dà la vita per lei», cui allude in maniera icastica il cavaliere medievale inginocchiato davanti alla sua dama.
Inoltre Dante stesso avrebbe celato mirabilmente la presenza di San Giuseppe – poiché è ‘il santo del silenzio’ e una «presenza fondamentale e sempre in secondo piano» – negli incipit delle terzine a partire dall’ultima strofa dell’Inno alla Vergine (Par. XXXIII, vv. 19-31):
«In te misericordia, in te pietate […]
Or questi, che da l’infima lacuna […]
Supplica a te, per grazia, di virtute […]
E io, che mai per mio veder non arsi […]
Perché tu ogne nube li disleghi […]»
Nei successivi incipit si scorge ancora un ‘AV’, un accenno al saluto dell’angelo e a quel sì di Maria che è il primo movimento che innesca conseguentemente l’abbraccio fiducioso di Giuseppe, suo sposo, che la sostiene e conforta. In tale dinamica amorosa si comprende anche il significato autentico della verginità, «infinita distanza, per la quale uno non pretende di afferrare e ridurre l’altro a sé stesso e alla propria misura, ma lo afferma nel suo rapporto con l’Infinito, che è al tempo stesso e proprio per questo il possesso vero, la vera prossimità». Un amore casto è infatti «libertà dal possesso», proprio come quello di Dio per l’uomo.
Ogni cristiano – che sia padre, madre, sacerdote o suora – è pertanto chiamato a far rilucere la verginità e nel contempo la maternità e paternità di Dio attraverso un amore oblativo capace di amare nella libertà i propri ‘figli’. Le parole della preghiera rivolta da san Bernardo a Maria possono così essere incarnate da ogni fedele: ciascuno è ‘vergine e madre’ e ‘figlio del proprio figlio’, nella misura in cui i «figli santi con famiglie in gravi difficoltà, si fanno carico della situazione, fino a rigenerare – letteralmente, ridestare alla vita – i propri genitori», ed è ‘termine fisso’, nella misura in cui è voluto da Dio dall’eternità. Nella sua umile grandezza, Maria è «il vertice dell’umanità di ciascuno» e la «sicurezza della nostra speranza» (don Giussani).
Infine Nembrini si sofferma su un bassorilievo di Gaudì del Portale del Rosario della Sagrada familia, il quale mostra Giuseppe che, con umile fierezza, posa il suo sguardo su Maria e il Figlio al capezzale di un moribondo per salvargli l’anima. Ponendo la mano sulla gamba del moribondo, San Giuseppe ci mette del suo, rivelandosi non solo ‘patrono della morte santa’, ma anche provvido e forte custode del cammino di ciascuno fino alla meta. Perché la salvezza passa sì per il ‘sì’ di Maria, ma si compie anche attraverso il ‘sì’ altrettanto umile e concreto di Giuseppe al grande disegno d’amore del Padre.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana