“Fu condotto ai piedi del marchingegno. Lì lo aspettava padre Jean Devoyod. Molte volte si era stretto al suo abito bianco di figlio di san Domenico e gli dispiacque di non poterlo fare anche in quel momento perché i polsi erano legati. Padre Devoyod gli si avvicinò fino a sussurrargli qualcosa sul volto, lo segnò, gli sorrise. Insieme salirono gli scalini. Poi trascorse un secolo che durò un minuto. Jacques fu messo giù. L’anima gli fu penetrata da un lampo nel quale passarono le mille verità della sua vita. Si udì un comando. Immediato – un grido: ‘Il Crocifisso! Il Crocifisso!’’. E davanti alle mani di padre Devoyod, che reggevano la Croce, la lama della ghigliottina precipitò con tonfo pesante”.
La modalità di andare incontro alla morte dice molto, se non tutto, del valore e significato riconosciuto alla propria vita. Ecco perché il racconto della vita di Jacques Fesch, un assassino che salirà presto agli onori degli altari, prende le mosse proprio dai suoi ultimi istanti per poi svilupparsi come un lungo flashback narrato con ritmo incalzante da Curzia Ferrari, scrittrice e giornalista, ne I giorni di Jacques (pp. 208, Ares, 2019).
Tormentato dal dèmone dell’avidità perché del denaro non può farne a meno, Jacques è un giovane che guadagna già 60.000 franchi al mese nell’istituto di credito del padre, per cui si lascia andare volentieri ad alcol, bagordi e gioco d’azzardo. Sposa Pierrette, una donna di origine ebrea, dalla quale ha una figlia, ma ben presto abbondona entrambe e torna a vivere dalla madre. In preda alla passione amorosa verso un’altra donna di cui s’invaghisce, si macchia di una terribile violenza per poi abbandonarla senza riconoscerne il figlio. Un fatidico giorno il padre si rifiuta di dargli il suo compenso, per cui per rabbia gli ruba la rivoltella che custodiva in un cassetto. In quel periodo Jacques desiderava comprare una barca a vela, ma non ne aveva il denaro necessario. Così organizza un colpo di mano e fugge via con la refurtiva. Inseguito da un poliziotto che gli intima di alzare subito le mani in alto, si trova di fronte un cancello senza altra via di fuga. Di qui istintivamente mette mano alla rivoltella e preme il grilletto: nel sangue di quell’uomo ucciso vede chiudersi i propri giorni di persona libera. Confinato in dieci metri quadrati di spazio vitale per tre anni nella prigione de La Santé, mentre è tentato di pensare che solo una severa condanna potrebbe redimerlo da tutti i mali compiuti, tra il silenzio e la solitudine, si fa strada progressivamente una ricerca profonda del volto di Dio che traspare vivida nelle sue lettere raccolte durante la fase di postulazione della causa di beatificazione.
L’amore del Padre lo visita attraverso le letture spirituali, gli viene incontro nel cappellano del carcere e soprattutto gli si fa prossimo mediante il suo avvocato, un terziario carmelitano “certo al novantanove per cento che avrebbero condannato alla pena capitale” il suo assistito. Nonostante tale timore, “egli mette in gioco l’ipotesi di rendere Jacques felice”, esortandolo a pentirsi e ad accogliere il perdono del Padre misericordioso. In preda all’angoscia, a sera, il condannato grida in cella ripetutamente: “Dio mio! Dio mio!” e la grazia del Padre viene a consolarlo. La racconta con queste parole: “Una grande gioia si è impossessata di me e soprattutto una grande pace. Tutto è diventato chiaro in pochi istanti…Quindi è venuta la lotta, silenziosamente tragica, fra ciò che sono stato e ciò che sono diventato, perché la creatura nuova innestata in me implora una risposta alla quale resto libero di rifiutarmi”.
Eppure Jacques è già stato condannato alla pena capitale nel momento in cui ha ucciso un agente, secondo quanto scrivono i giornali, perché nella Francia della prima metà del ‘900 la vita di un poliziotto veniva considerata di maggior valore rispetto a quella di un comune passante, per cui di conseguenza la sua colpa era causa di maggiore riprovazione sociale. In forza del peso politico del Sindacato di Polizia francese, l’affaire Fesch diviene allora presto un caso di giustizia di rilevanza nazionale.
Se ciò è motivo di sofferenza per l’animo di Jacques è anche nel contempo fonte di feconda espiazione. In cella Jacques prega il Rosario, recita la liturgia delle ore, si comunica e legge le vite dei santi. Nell’ultima sua Pasqua invita un amico in carcere a gioire esclamando che “è la festa della nostra felicità”, mentre confessa all’avvocato carmelitano di aver ricevuto per due volte un messaggio da Gesù: “Tu ricevi le grazie della tua morte”. Di qui, dopo la condanna definitiva, dirà nell’ultimo abbraccio al suo fido avvocato: “Vi starò sempre accanto: se Dio me lo concede, vi assisterò di lassù”. Paul Baudet morirà il 6 aprile 1972, a 15 anni esatti dalla fine del processo.
La fede di Jacques radicata nell’amore del Padre fa capolino anche nella serena accettazione della pena di morte. Egli offre la sua testa al carnefice “come un fiorellino primaverile”, consapevole che “per essere ammessi a contemplare Cristo, bisogna purificarsi per mezzo della sofferenza e uccidere in noi tutto ciò che ci è proprio” e che “se l’anima gioisce, il corpo è morto e più nulla conta, a parte i baci che si mandano al cielo”. In tale spirito di umiltà sposa anche religiosamente sua moglie Pierrette e perdona i suoi carnefici. Prima di salire sul patibolo afferma: “Io non muoio, non faccio che cambiare vita e sono tanto felice che padre Thomas celebri la Messa ogni giorno per le mie intenzioni. Con la Santa Ostia ogni mattina sale al cielo Jacques Fesch!”. Il sigillo sulla sua morte in odore di santità lo metterà l’arcivescovo di Parigi che nel 1987 apre la causa di beatificazione.
Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana