«Fratelli, noi dobbiamo essere colui che rimane!», grida dal pulpito padre Paneloux ne La peste di Camus. Dinanzi al malato in stadio terminale è infatti più facile scappare e abbandonare il campo che restare. Ma rimanere accanto, farsi prossimo nella carità al fratello sofferente è autenticamente umano e ciò che contraddistingue la vera compassione (da ‘cum–patire’ ossia ‘soffrire insieme’) dalla falsa compassione di ‘staccare la spina’, oggi fortemente sostenuta dall’imperante cultura della morte.
Cicely Saunders è colei che rimane. Di cosa è fatta la speranza – il recente romanzo di Emmanuel Exitu – è una biografia romanzata che racconta il misterioso abbraccio tra il dolore e la speranza, attingendo a piene mani all’esistenza concreta della protagonista. Fondatrice del primo hospice e ideatrice delle cure palliative, la Saunders ha saputo coniugare sapientemente l’attenzione e la premura per la dignità del malato in fase terminale con l’esigenza di curarlo fino alla morte naturale con grande professionalità e competenza. E in effetti le procedure da lei messe a punto sono tutt’oggi un punto di riferimento per migliorare la qualità della vita dei malati terminali.
È il 15 ottobre 1943, ore 5:46. Le allieve infermiere dell’ultimo anno della Nightingale Training School for Nurses partono da Londra dirette a un ospedale allestito per curare i feriti che giungono dai fronti di guerra. Tra le ragazze, emozionate nelle loro uniformi impeccabili, ce n’è una snella e alta un metro e novanta, «quasi e più di un uomo», soprannominata Giraffa, e dai piedi grandi che le valgono invece l’appellativo di Piedona. Si tratta dell’allieva Cicely Saunders che «non si poteva certo definire un tipo socievole», con la passione per lo studio, la musica e il canto. La famiglia desidera per lei l’università di Oxford, ma ella vuole diventare infermiera. Durante le notti interminabili in corsia, Cicely vede morire tra sofferenze indicibili ragazzi forti e coraggiosi, suoi coetanei.
Ha il coraggio di rimanere al capezzale di un malato, il capitano Williamson, che si dimena nel letto tra sofferenze atroci e al quale la dose standard di morfina non basta più. Sopporta la frustrazione di non poter fare per lui e gli altri ammalati come lui nient’altro che ciò che i medici prescrivono; «odia la parola protocollo quanto odia se stessa che la dice» ed è costretta a constatare con profonda amarezza come per un medico ogni moribondo sia una ‘causa persa’, un insuccesso professionale. Cicely, però, non si dà per vinta: comincia ad annotare i tentativi e i fallimenti, le intuizioni, le buone pratiche che consentono di lenire la sofferenza. Osserva urine, feci, temperatura, respiro, il ‘dolore erratico’ che si presenta a ondate nei pazienti che ha in carico e gli effetti della morfina che sembra alleviare solo per pochi istanti gli spasimi.
A illuminare il tema del dolore compare nel romanzo la figura di Clive Staples Lewis al quale Exitu, nel corso di una conferenza, mette in bocca queste parole sul suo significato che la Saunders ascolta con attenzione: «Anche Dio tace. Se non tacesse non sarebbe Dio. Tace esattamente come l’uomo qualunque quando è schiacciato dal dolore. Questo Dio non è solo con noi ma è come noi. E per rispondere al nostro grido non ha dato spiegazioni: ha dato suo Figlio e l’ha fatto gridare con noi. Dio tace non perché non esiste: tace perché sta soffrendo con noi, per noi, come noi. È un Dio vivo, di carne viva. E la carne soffre. E nessuno che stia davvero soffrendo ha voglia di fare discorsi, né di sentirli, mi sembra piuttosto facile da capire. Perciò quando troviamo una persona che soffre dovremmo evitare di buttarle in faccia parole vuote, di circostanza. Dovremmo offrire piuttosto la nostra presenza, noi stessi, proprio come fa Dio. Questo è l’amore perfetto: darsi, donarsi». Pur essendo inizialmente agnostica, la Saunders si lascia provocare dalle parole che l’autore de Le Cronache di Narnia le dice in privato al termine dell’incontro, invitandola a riscoprire il ricamo del Padre sotteso a ogni dolore perché non sia sofferto invano. Di qui ella approderà presto alla fede cristiana, raggiungendo una nuova consapevolezza in relazione ai suoi pazienti e al loro dolore, ossia che «se Dio non esiste, fine della storia. Ma se esiste, è di sicuro lì con loro. E se non è lì, dice a sé stessa, non è da nessuna parte».
Così quando David le manifesta ormai in fin di vita il desiderio di morire a casa, Cicely matura l’idea di costruire «una casa-ospedale, una casa specializzata come un ospedale e un ospedale caldo come una casa». Per realizzare tale ambizioso progetto la Saunders comprende che il titolo di infermiera non è sufficiente, per cui si laurea in medicina. Nel 1967 riesce ad aprire il primo moderno hospice, ossia un posto dove «il dolore costante sia trattato in modo costante con dosi minime da modulare secondo l’esigenza» e le relazioni coi propri cari siano riattivate, favorendo l’autonomia del paziente ed evitando l’assuefazione ai farmaci. Insomma un luogo in cui poter essere curati, assistiti anche dai propri familiari e persino liberi di cantare, vivendo con dignità, gratitudine e serenità gli ultimi istanti della vita terrena fino alla morte naturale.
In questo modo continua a sperimentare farmaci capaci di lenire le sofferenze fisiche dei malati all’ultimo stadio, nella consapevolezza sul piano spirituale che «non è vero che la fede aiuti a soffrire di meno, a togliere il buio. La fede è un buio che brilla di mistero. Tutto nella vita è promessa e tutto nella vita tradisce una promessa». Per evitare di precipitare nel «buio dell’assurdo» si tratta allora di accogliere «il buio del mistero, che promette che conserverà tutto: nessun bacio e nessuno sguardo, nessuna carezza e nessuna parola saranno mai vani, mai perduti».
La dedizione amorevole di questa donna alla cura testimonia che ogni sofferenza ha sempre un rimedio, l’autentica compassione di chi sa farsi prossimo del proprio fratello anche e soprattutto in condizioni di fragilità estrema, rinsaldandone la speranza, definita mirabilmente da Exitu come «un posto dove puoi morire scoppiando di vita».
Pur essendo costruito sulla parola cura il sottotitolo del volume – “Il romanzo di Cicely Saunders che si è presa cura degli incurabili” – avrebbe potuto preferire più appropriatamente la parola ‘inguaribili’ al posto di ‘incurabili’. Perché – come tra l’altro dimostra ampiamente tutto il romanzo che si legge gradevolmente nonostante il tema impegnativo – si può essere inguaribili sul piano clinico ma non si è mai incurabili: il prendersi cura dell’altro, a maggior ragione nella fase terminale della sua esistenza terrena, è un segno di civiltà e un atto d’amore dovuto a ciascun uomo in virtù della sua dignità infinita di creatura a immagine del Creatore.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana