“All’inizio, il rapporto tra psicologia e religione è stato caratterizzato da una reciproca diffidenza che, probabilmente trova le sue origini nelle ipotesi di Freud, il padre della psicologia moderna, che considerò la religione come un’esperienza nevrotica, al più un’illusione, che aveva il ruolo di placare l’angoscia esistenziale dell’uomo”. Di diverso avviso furono invece i suoi successori, decisamente più propensi a valorizzare il contributo positivo della religione alla maturazione umana. Allo stesso modo lo psicologo e psicoterapeuta Domenico Bellantoni, docente invitato di Psicologia della religione presso l’Università Salesiana di Roma, sviluppa la propria indagine fenomenologica ad orientamento analitico-esistenziale nel solco della riflessione dello psichiatra viennese Viktor Frank e delle sue applicazioni cliniche ed educative.

Così, nel considerare il legame esistente tra psicologia ed esperienza religiosa – nel suo recente volume Religione, spiritualità e senso della vita (Franco Angeli 2019, pp. 274) – Bellantoni si sofferma sulla dimensione trascendente quale fattore di promozione dell’umano, evidenziando come la fede possa costituire una risorsa preziosa fondamentale anche nel lavoro terapeutico.

Se da un lato certamente “l’immaturità della religione nevrotica” riscontrata da Freud in alcuni suoi pazienti “non può essere estesa all’intera fenomenologia del fatto religioso”; dall’altro però è necessario interrogarsi su quale ruolo possa ricoprire la fede in una società relativista e nichilista, tanto più se si considera che “il nichilista dice a se stesso che non è affatto necessario prendere in pugno la propria vita, dominare il destino, perché la vita in fondo non ha alcun senso” (Frankl). Infatti oggi si assiste impotenti a un dilagante riduzionismo antropologico che considera l’uomo a una dimensione, sia essa biologica, psicologica o sociologica, ma pur sempre esclusivamente orizzontale, per cui c’è chi si ripiega nel fatalismo, ossia si lascia determinare dagli eventi e dalle circostanze che gli capitano; chi preferisce un conformismo prono al ‘politicamente corretto’; chi è razionalista e confida nel progresso costante della tecnologia; chi è scientista, per cui ripone tutta la propria fiducia in una scienza priva di limiti, la quale “gli toglie l’ultimo residuo di quel sentimento di significanza che può ancora essergli rimasto”, per dirla sempre con lo psichiatra viennese.

Al contrario, per Frankl, l’uomo è uno “scopritore di significati che esistono indipendentemente da lui” e si autorealizza, ossia può trascendere se stesso soltanto “orientandosi a qualcosa fuori di sé, come un valore, un compito, una persona d’amare”. Se il segreto di una vita felice consiste nella capacità di trascendere se stessi amando, allora occorre innanzitutto evitare il rischio di ricercarlo “nell’emozionalità, in una sorta di attivazione fisiologica che contribuirebbe al ‘sentirsi vivi’”. Lo scopo della vita non può evidentemente coincidere con un imperativo attualmente imperante soprattutto tra i più giovani come “Godi il più possibile!”, poiché assecondarlo è soltanto un’illusione e un triste inganno. Infatti “quanto più si cerca di ghermire il piacere, tanto meno lo si ottiene. Ciò è dovuto al fatto che il piacere non è mai lo scopo degli sforzi umani – afferma ancora Frankl –, ma è, e deve restare, un effetto, l’effetto collaterale dello scopo raggiunto”.

Relativamente al legame tra religione e psicologia, pur perseguendo finalità differenti – la prima la salvezza dell’uomo la seconda il benessere dell’anima – costituiscono entrambe “un fattore importante di resilienza e di crescita post-traumatica”. Lo conferma “un recentissimo studio, condotto su di una popolazione di soggetti anziani, che ha evidenziato come la pratica religiosa sia correlata a un più alto livello di resilienza nel fronteggiamento di disagi, avversità e persino eventi traumatici, minore depressione e anche migliori capacità di reintegrazione in riferimento a vissuti traumatici”, nella misura in cui “rimandando a un vissuto profondo, la fede rappresenta qualcosa di unificante ed armonizzante l’intera esistenza, che proprio da tale atteggiamento acquista senso, inteso come orientamento nella vita, e significato, come valore assegnato ad essa e, in essa, ai vari accadimenti”. Credere in Dio nel significato autentico comporta in realtà “l’essere fedeli a Dio e coerenti con il senso ‘scoperto’ come vero, buono e giusto per la propria esistenza nelle continue risposte agli appelli della vita, nei suoi innumerevoli eventi”.

Ma come accogliere e sostenere il senso religioso del paziente durante il setting terapeutico, nell’esigenza di tenere distinte la funzione dello psicoterapeuta e la missione del sacerdote? Innanzitutto occorre considerare che “la religione non è mai una polizza di assicurazione per una vita tranquilla, per una libertà da conflitti, per un obiettivo psicoigienico. La religione dà all’uomo molto di più della psicoterapia, e nello stesso tempo gli chiede anche molto di più”. A sostenerlo è ancora una volta Frankl, lo psichiatra viennese che per le sue origini ebraiche visse anche la prigionia in ben quattro campi di sterminio. Sulla sua scia Bellantoni mostra, riprendendo alcuni stralci di colloqui svolti durante il lavoro terapeutico, come si possa far leva proficuamente sulla coerenza del paziente rispetto alle esigenze proprie della fede che confessa di professare. In questa prospettiva analitica anche il racconto dei sogni può divenire un elemento rivelatore significativo della maturità della condotta religiosa del paziente, nella misura in cui è espressione della sua capacità “di vivere nella continuità e nella reciproca implicanza l’esperienzaquotidiana e l’esperienza trascendente”.

La lettura del volume di Bellantoni, che dedica un capitolo anche al ruolo del testo sacro come risorsa educativa e di autoformazione, può dunque risultare particolarmente utile a quanti sono impegnati nella cura della persona in ambito educativo, formativo, consulenziale, pastorale, accademico e clinico.

Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana

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