«La sterilità consiste nella presenza di un ostacolo alla fecondazione con conseguente assoluta mancanza della capacità riproduttiva. Una coppia è detta sterile quando è incapace di concepire dopo 12 mesi di rapporti coniugali regolari senza contraccezione. L’infertilità è la conseguenza di un difetto dell’annidamento o dello sviluppo dell’embrione, per cui la donna è incapace di proseguire la gravidanza. Dà luogo ad aborti spontanei ricorrenti. Quindi, parlando in senso proprio la sterilità può riguardare lui, lei e la coppia, mentre l’infertilità riguarda solo la donna». Il teologo morale domenicano padre Giorgio Carbone distingue e chiarisce sin dalla prima pagina i concetti salienti al centro del suo recente saggio Sterilità e fecondazione in vitro (ESD 2024, pp. 208).
«La sterilità e l’infertilità sono innanzitutto una situazione esistenziale con profondeimplicazioni di carattere personale, emotivo e relazionale all’interno della coppia e anche all’esterno di essa. La sterilità e l’infertilità chiamano in causa investimenti affettivi e psicologici più o meno consapevoli sul figlio e non di rado sono all’origine di disagio, stress, frustrazione e colpevolizzazione personale e reciproca», rileva padre Carbone, mentre osserva che tale fenomeno riguarda il 15% della popolazione mondiale tra i 15 e i 45 anni, stando alle stime 2010 dell’Oms. La percentuale risulta essere la medesima anche per le coppie italiane, stando ai dati del Registro nazionale della procreazione medicalmente assistita (Pma) del 2019.
Si tratta inoltre di «un fenomeno riguardante circa 186 milioni di persone al mondo e all’incirca il 50% dei casi di infertilità è dovuto al fattore maschile» sebbene, secondo il senso comune, la principale responsabilità sia attribuita alla donna. La fecondazione artificiale resta tuttavia una tecnica perversa con scarsi successi, se si considera che «su 100 embrioni umani prodotti circa 6 arrivano al parto e su 100 coppie 16 hanno il bimbo in braccio». La sterilità dipende da molteplici cause, qualil’incremento dell’età della prima gravidanza; tabagismo, consumo di alcol e droghe, cannabis compresa; dieta alimentare squilibrata e stress; uso di antidepressivi e chemioterapici, radioterapia e, per la donna, il ricorso a contraccezione e aborto. Vi sono poi le cause organiche, endocrine, recettoriali e immunologiche di vario tipo. Per l’uomo, invece, le principali cause sono legate all’alterazione del seme (spermatozoi assenti, scarsi, poco motili, alterati morfologicamente etc.).
Per quanto le ricerche intorno alle cause dell’infertilità siano discretamente diffuse mancano studi legati alla prevenzione e alla pratica clinica per curarne gli effetti, anche perchè il business è tutto intorno alla Fivet che, sul piano bioetico, non è ammissibile. Al contrario «sono certamente leciti gli interventi che mirano a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale, come ad esempio la cura ormonale dell’infertilità di origine gonadica, la cura chirurgica di una endometriosi, la disostruzione delle tube, oppure la restaurazione microchirurgica della pervietà tubarica. Tutte queste tecniche possono essere considerate come autentiche terapie, nella misura in cui, una volta risolto il problema che era all’origine dell’infertilità, la coppia possa porre atti coniugali con un esito procreativo, senza che il medico debba interferire direttamente nell’atto coniugale stesso».
Un possibile rimedio terapeutico all’infertilità è rappresentato anche dai metodi naturali, che «sono una sorta di know-how, un insieme di conoscenze e competenze che la coppia può guadagnare insieme sulla propria fisiologia e sul valore della propria fertilità per progettare scelte condivise, fondate sul rispetto vicendevole e sull’amore oblativo reciproco, anche verso il figlio». Tra le tecniche al servizio della procreazione l’inseminazione intra-uterina (Uiu) può essere moralmente lecita soltanto nella misura in cui «consisterà in una tecnica di aiuto e/o prolungamento dell’atto coniugale, perché tale atto normalmente compiuto possa meglio raggiungere l’obiettivo della generazione».
Riguardo alle altre tecniche più remunerative per il giro d’affari intorno alla Fivet il fatto «che un gran numero di donne abbiano sopportato un totale di 7.000 cicli […] nella speranza di diventare incinte è una misura dei sacrifici che esse sono preparate a fare per superare la sterilità. Che da tutto questo sforzo ci siano stati soltanto 605 nati vivi (12, 9%) è una prova che la Fivet resta una potente sorgente di grandi speranze deluse […] uno stato di cose in cui migliaia di donne ogni anno giocano di fortuna con una nuova tecnica, e sono crudelmente deluse 4 volte su 5».
E in effetti «i ripetuti fallimenti della tecnica generano ansietà e crisi depressive. E anche in caso di successo la gravidanza è vissuta dalla madre e dalla coppia in genere con ansia e stress maggiori rispetto a quello di una gravidanza naturale”, osserva ancora il teologo domenicano.
Relativamente alle diverse tipologie di Fivet, come rispetto alle complicanze materne, fetali e perinatali legate ai nati dalla provetta, padre Carbone si premura di illustrare le tecniche nei particolari, riportando accuratamente i dati statistici complessivi delle stesse, e non solo successi e insuccessi, prima di una valutazione morale che è pertanto espressa non aprioristicamente ma sempre corroborata da numerose evidenze scientifiche. Anche alla luce di queste ultime egli constata con amarezza come gli embrioni crioconservati vivano «un’ingiustizia talmente grave che è impossibile porvi rimedio».
Il volume di padre Carbone mostra dunque con argomentazioni razionali in sostanza che «generare un uomo non consiste nell’asettica unione di due gameti, non è un fare tecnico-scientifico, né meramente biologico. Generare un uomo è un atto profondamente umano che coinvolge la persona dei coniugi e tutti gli aspetti della loro vita in modo così integrale che essi, donandosi reciprocamente con l’atto coniugale, pongono le condizioni perché una persona terza, il figlio, riceva la vita». Questo presupposto consente infatti di evitare ogni spersonalizzazione riduzionistica e cosificazione dell’essere umano, per la quale il figlio non è generato ma prodotto, e perciò deve «corrispondere a determinati criteri standard qualitativi di chi lo produce». Di qui «il figlio in provetta, privato del grembo materno, è completamente alla mercé dei tecnici che lo hanno prodotto e che possono fare di lui quello che vogliono. È un ‘nuovo schiavo’ dei desideri degli adulti» che tali perverse tecnologie assecondano nel solco della ‘cultura della morte’.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana