“Italia, popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori”, recita l’iscrizione che campeggia sul Palazzo della Civiltà italiana all’Eur voluto da Mussolini. La santità è dunque una “manifestazione tra le più significative della religione cristiana, nella costruzione di un’identità italiana”. Lo dimostra chiaramente il recente e pregevole volume L’Italia e i Santi, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Si tratta di un progetto editoriale a cura di Tommaso Caliò, Daniele Menozzi e Antonio Menniti Ippolito che intende mostrare come “il tema della santità si intrecci fortemente con la storia d’Italia a partire dalla produzione agiografica erudita diffusa tra il XV e il XVIII secolo con le raccolte territoriali delle vite dei santi”.
Attualmente, secondo le consuete tappe del processo di canonizzazione, bisogna esser proclamati ‘beati’ prima di diventare santi. Eppure “la parola ‘beatificazione’, destinata ad avere una larga fortuna sino ai giorni nostri, fu utilizzata per la prima volta in una lettera che il re di Spagna Filippo II scrisse il 7 ottobre 1585 al conte d’Olivares Enrico de Guzmán a proposito del domenicano Luigi Bertrán, di cui il sovrano auspicava il riconoscimento del culto locale”. La necessità di essere proclamati prima ‘beati’ è stata una novità introdotta a seguito dell’istituzione della Congregazione dei Riti voluta da Papa Sisto V nel 1588. Pertanto “Carlo Borromeo – scrive lo storico Miguel Gotor nel suo saggio – fu l’ultimo santo nella storia della Chiesa a ottenere direttamente l’aureola senza essere stato prima beatificato. Questa, infatti, fu la principale innovazione determinata dalla fondazione della Congregazione dei riti che riguardò lo sterminato campo del riconoscimento dei culti particolari, quelli che sbocciavano a livello diocesano come tanti fiori nelle periferie della cattolicità. Una potente pressione devozionale dal basso che aveva bisogno di essere prima controllata e poi disciplinata mediante la definizione di un nuovo istituto giuridico, quello della beatificazione, che iniziò da questo momento in poi ad affiancare in via preventiva la concessione dell’onore degli altari”. Il primo a esser beatificato, nel 1601, fu invece l’agostiniano Giovanni di San Facondo, morto nel 1479. Di lì a breve seguiranno i nomi celebri di Teresa d’Avila nel 1614 e di Filippo Neri nel 1615. Tale modifica nell’iter di canonizzazione era sostanzialmente finalizzata a “provare a controllare la vera e propria esplosione devozionale che di solito caratterizzava la morte in odore di santità di un defunto carismatico”. Con Urbano VIII la Congregazione del Sant’Uffizio avocava definitivamente a sé la prerogativa di “controllo dei nuovi culti di santità, allo scopo di disciplinare ogni proposta devozionale quando ancora si trovava nella sua fase aurorale”.
L’evoluzione storica del processo di canonizzazione è solo uno dei temi sviluppati in questo volume, che consta di 783 pagine, raccoglie numerosi contributi scientifici di autorevoli studiosi ed è impreziosito da pregevoli tavole illustrative che mostrano attraverso la bellezza del linguaggio artistico tutto lo splendore del Paese dei santi. Tra gli altri temi affrontati nei diversi saggi c’è l’analisi delle devozioni popolari, le feste e i culti nel Settecento. Lo storico Mario Rosa considera il contributo di Ludovico Antonio Muratori a una ‘regolata devozione’ e la ‘pietà illuminata’ del vescovo giansenista Scipione de’ Ricci che osò contrastare il culto del Sacro Cuore. Tuttavia se da un lato si assiste a un’eccessiva razionalizzazione del culto, dall’altro parallelamente incalza la domanda di ‘santificazione dal basso’, come nel caso di San Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino francese morto nel rione Monti in odore di santità. Allo stesso modo vengono poi esaminati diversi modelli di santità antiunitaria nella Roma di Pio IX, come le radici alla scaturigine della proliferazione di forme devozionali mariane e a S. Giuseppe. Non mancano però, a partire dall’età risorgimentale sino a quella dei totalitarismi del secolo scorso, alcune esplicite politicizzazioni della santità. Ne sono palesi espressioni la costruzione di un’agiografia di Garibaldi, il prototipo del ‘martire fascista’, il modello del ‘santo partigiano’ o quello dell’‘eroe-martire civile’, alla stregua di Falcone e Borsellino rappresentati in aura di santità “oltre la lotta alla mafia per rappresentare il tessuto etico della nazione”. Tale uso politico delle figure dei santi traspare attualmente ancora nelle strumentalizzazioni della pietà popolare operate dalle mafie e persino in alcune trasposizioni cinematografiche delle vite dei santi, per cui “l’agiografia, oltre al tradizionale canale del libro, si frammenta sulle pagine dei rotocalchi, segue gli schemi più o meno prevedibili delle fiction televisive, acquisisce i colori del fumetto, si espande sul web”.
L’Italia e i Santi indaga in maniera accurata le molteplici sfaccettature della dimensione politica del concetto di santità, intesa come instrumentum regni, a detrimento però della matrice spirituale e teologica profonda che costituisce una lente privilegiata per inquadrare adeguatamente anche sotto il profilo storico tale epifenomeno, poiché, per dirla con Benedetto XVI, “la santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua”.