Un ‘quadretto familiare’ psicopatologico
L’origine del mondo, ossia il Ritratto di un interno scritto e diretto da Lucia Calamaro, è “una storia di donne, una storia di legami familiari”. In scena al Teatro India fino al 18 maggio questo dramma, che ha già vinto tre prestigiosi premi Ubu, catapulta lo spettatore “in un mondo fatto di elucubrazioni e quotidiano”, alle prese con “una famiglia che ha l’abitudine di scandagliare il reale mentre mangia, chiacchiera, si veste”. Lo spettacolo offre “squarci di forte intensità, capaci di toccare le corte profonde e più intime senza sottrarsi a momenti di disperata allegria e irrefrenabile ironia”.
La scena si apre su Daria, una madre sorpresa dalla figlia durante la notte a frugare nel frigo di casa in caccia di qualcosa di buono, di qualcosa che possa almeno illuderla di essere in grado di risollevarsi dal proprio stato di depressione cronica. Daria vive infatti in “un lutto permanente”, convinta della veridicità di quanto le diceva la zia Brunilde: “Più hai guai, più sai”. Cinica come tutti i suoi simili, si è ormai convita che “la gente ama solo la tua parte vitale, del tuo dolore non gliene frega niente”. La madre della madre, più esaurita della figlia, invece di tirarla su, continua a ripeterle con insistenza: “Tu non ne hai azzeccata una in vita tua” e la definisce, non troppo bonariamente, “una sfollata della vita”. In tale contesto familiare non c’è scampo naturalmente nemmeno per la figlia di Daria, che respira la stessa aria viziata della madre e della nonna. A nulla serve la figura della psicoanalista, “idraulica dell’anima” assolutamente impotente dinanzi alle paturnie mentali e alle attuazioni di meccanismi ‘copionali’ ereditati di madre in figlia. Così, dalle parole della donna che ha alle spalle il vissuto più lungo, emerge il leit motiv delle loro grame esistenze e il mistero sotteso alla stessa ‘origine del mondo’: “Stare nella noia senza affogarsi è il vivere”. “In fondo – riflette infatti l’autrice del dramma – da cosa è composta la vita di un essere umano: un corpo e i suoi andazzi, una mente e i suoi rovelli, le cose e la necessità di gestirle, e poi gli altri, sotto forma di affetti, rivali, problemi, salvezza, ristoro, passione, legami, vantaggi, limiti”. Colto limitatamente ai suoi aspetti negativi, un legame familiare così degradato si rileva purtroppo alla fine incapace di incidere positivamente e di rendere conseguentemente meno triste la vita delle tre protagoniste, complice probabilmente anche l’assenza di figure maschili.
Per questo motivo soprattutto Daria rimane “agita dal suo inconscio” e del tutto priva di relazioni autentiche che la liberino della sua tristezza irrimediabilmente radicata nella sua vita psichica e sociale. Rimangono solo i legami rapporti nevrotici e sclerotizzati con “le cose, che allontanano da un pensiero che ti divora”. Tali legami sono gli unici capaci di incidere. Lo attesta una divertente ‘apologia dello straccio’. In tal senso “qualsiasi esperienza del reale può salvarti”.
Sebbene il testo sia costantemente infarcito di filosofemi certamente non facili da ricordare, è stata davvero intesa la performance interpretativa delle attrici protagoniste Daria Deflorian, Federica Santoro, Daniela Piperno, nei panni di tre donne che danno libero sfogo al proprio ‘flusso di coscienza’ perennemente in bilico sul crinale di una ‘crisi di nervi’.