Oggi c’è un mostro che soffoca la vita. È l’ansia che, venendo costantemente iperalimentata, rende indisponibili all’attesa, segue la logica del ‘tutto e subito’ e ci fa perdere il gusto di aspettare. Lo sottolinea con fermezza padre Maurizio Botta – giovane sacerdote della Parrocchia di Santa Maria in Vallicella a Roma e brillante predicatore oratoriano nel solco del carisma di San Filippo Neri –, nel primo dei ‘Cinque passi al Mistero’ raccolti nel suo recente volume Nasi lunghi gambe corte (Edizioni Studio Domenicano 2019, pp. 159).
L’ansia è “uno stato della mente e del corpo che in determinate circostanze tutti gli esseri umani conoscono e sperimentano”. Egli sottolinea infatti che esiste un’ansia positiva, ‘adattiva’, “che ci consente di adattarci meglio all’ambiente e alla realtà che ci circonda, che aumenta il nostro stato di vigilanza e ci aiuta focalizzare un elemento degno di attenzione”, e un’ansia altrettanto benefica che si manifesta come ‘percezione di vulnerabilità’ relativamente a quanto abbiamo paura di perdere. Se contenuta entro certi limiti, l’ansia è dunque un fattore positivo legato alla capacità previsionale dell’uomo, al futuro. L’ansia negativa è invece disadattiva e consiste “nella sovrastima del pericolo e nella sottostima delle risorse personali per fronteggiarlo”. Una simile ansia è anche il “male spirituale di ogni tempo, che nasce dall’illusione di poter controllare la realtà, dal delirio d’onnipotenza sulle nostre capacità, dalla schiavitù logorante di voler affermare se stessi”. Contro l’ansia, stando all’appello di padre Maurizio, il rimedio è uno solo: rimanere nel presente, fidandosi del fatto che c’è un Padre che ci ama, “e offrire a Dio la sofferenza dei propri respiri dolorosi” che talvolta sembrano soffocarci, nella consapevolezza che è Cristo e non se stessi il metro di giudizio del proprio valore.
Nel ‘secondo passo’ dedicato alla pigrizia padre Botta rileva come tale vizio abbia in sé qualcosa di disgustoso e vergognoso. Lo attesta la stessa “irrefrenabilità con cui ci appelliamo alle giustificazioni” ogniqualvolta veniamo accusati di essere pigri. “La pigrizia è la ruggine della bellezza”, diceva Buddha. Lo si legge anche nella Scrittura allorquando “il fastidio nel vedere un pigro che esegue un compito affidatogli è paragonato al sapore di aceto o al fumo negli occhi (cf. Prov 26, 14)”. E ancora, nel libro del Siracide il pigro è addirittura assimilato a una palla di sterco (cf. Sir 22, 2). Oggi invece sin da piccoli si assiste a ‘un’istigazione alla pigrizia’, instillata da genitori troppo apprensivi, pronti a evitare ogni minima fatica ai propri figli, e favorita da insegnanti disponibili ad accettare anche una pessima calligrafia dai loro studenti, abituati a scrivere per abbreviazioni sui social. Per non parlare della pigrizia nella lettura e di quella ben più grave nel fare il bene. Infatti, per dirla con un proverbio significativo, “la pigrizia è la stupidità del corpo, la stupidità la pigrizia dello spirito”. Di qui se “rifiutiamo il sacrificio della pazienza, la sofferenza dell’attesa, non impareremo né insegneremo mai nulla”. Allo stesso modo “la madre perfetta fa la figlia inetta”, per dirla con un altro proverbio popolare, nella misura in cui fa tutto lei e non permette che la si aiuti. Così, frustrando ogni tentativo dei figli, li si impigrisce. Tale vizio può essere sia il frutto del perfezionismo altrui, sia l’esito della ‘cultura dell’aiutino’ che demonizza il sacrificio come del nichilismo contemporaneo. D’altra parte perché ci si dovrebbe sacrificare se nulla ha valore e significato? Ecco allora l’altra faccia della medaglia della pigrizia, ossia la tristezza, “quella tristezza diabolica che ingloba il senso ultimo della vita e il senso possibile di tutti gli atti umani, la tentazione di dire e di pensare che tutto è inutile”, per cui a nulla serve impegnarsi per qualcosa, né tanto meno perseguire con fatica il bene. Allora il canto, il vivere la vita come un pellegrinaggio, la carità operosa, la preghiera e la liturgia costituiscono alcune vie maestre per uscire dal nichilismo e scrollarsi di dosso la pigrizia, in quanto è solo riacquistando il senso e assaporando il gusto di una vita piena che si è spinti ad alzarsi dal divano.
Relativamente al ‘terzo passo’ dedicato al tema della scelta, il sacerdote oratoriano evidenzia come la nostra sia una ‘libertà da’, mentre quella vera, autentica, è la ‘libertà per’. Certo bisogna anche rassegnarsi al fatto che ogni scelta ‘libera per’ implichi una rinuncia. D’altra parte “se scegli qualcosa inevitabilmente ti privi di un’altra”. Occorre dunque liberarsi “dell’illusione luccicante delle mille possibilità aperte”. La regola fondamentale che deve animare ogni scelta umana dovrebbe quindi essere la gloria di Dio e la salvezza dell’anima propria e dei fratelli, come insegna Sant’Ignazio di Loyola, evitando di scambiare i mezzi (es. vocazione al matrimonio o alla vita consacrata) con i fini. In tale prospettiva i consigli sono di “non prendere mai una decisione importante quando si è nella tristezza” e di “non mettere mai in discussione una decisione presa nella luce, nella pace, nella gioia e nella bellezza”. È necessario altresì considerare che “non esiste scelta e libertà vera senza gli altri. È sempre un altro a dirti chi sei, ad aiutarti a capire negli snodi fondamentali della vita”.
Rispetto alla menzogna del ‘quarto passo’, padre Maurizio individua, tra le ragioni per cui si mente, la paura, il timore di essere rimproverati e la pigrizia per evitare la fatica di dover dare delle spiegazioni. Ma il rischio più grande lo corre chi mente a se stesso o vive nella menzogna. Allora il rimedio è lasciarsi attrarre da Cristo come da una calamita in modo tale che “tutto ciò che nella tua vita è menzogna, che non è verità incarnata, scivoli via”. Il demonio è infatti il padre della menzogna; “le sue bugie sono anche sistemi di pensiero, idee, immagini, programmi televisivi costruiti per alimentare lo sconforto e sedimentare le voci disperanti”. Ma persino “le menzogne vissute, le più dolorose, cadono in un rapporto vivo e vero con Cristo”.
L’ultimo passo è relativo all’ossessione del confronto e al bisogno di sentirsi migliori degli altri. “La superbia – afferma padre Botta – gode dell’inferiorità altrui”. Per il superbo non essere vincente o ‘la più bella del reame’ equivale a non essere nessuno. Eppure la diversità di amore con cui il Padre ama ciascuno non deve dar luogo a un confronto invidioso tra fratelli. L’amore di Dio non può esser misurato in termini di ‘più’ o di ‘meno’, come fu per Caino in relazione al gradimento da parte del Padre dell’offerta del fratello Abele. Di qui “il problema di Caino è proprio la non accettazione del modo in cui Dio ama lui e di conseguenza del modo con cui ama Abele”. L’antidoto al bisogno di sentirsi migliori degli altri si radica allora in tale amore del Creatore, diverso e unico per ogni sua creatura. E in effetti, per dirla con Lewis, “se vi è uguaglianza, è nel Suo amore, non in noi”, nella misura in cui “nell’amore immenso di Dio per ciascuno di noi – conclude il sacerdote oratoriano – le nostre differenze vengono non solo custodite, ma esaltate”, per cui “ciò che è uguale è la potenza dell’amore di Dio”.
Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana