«Si interessa di arte e di cesello, di pittura e di canto, ma si occupa anche di cavalli. E ancora, compone versi e si diletta di studi letterari. Di certo, non il profilo di un uomo politico, non di un princeps che ammalia la folla con la sua abilità oratoria».
Così Silvia Stucchi – docente di Lingua e letteratura latina all’Università Cattolica – presenta Nerone in un romanzo storico particolarmente documentato che decostruisce il mito dell’imperatore della dinastia giulio-claudia sanguinario e corrotto (Nerone. Verità e vita dell’imperatore più calunniato della storia, Giunti 2022, pp. 384). Ricorrendo a curiosità e aneddoti, ma anche ad abili ricostruzioni di dialoghi e verosimili rappresentazioni di scene di vita dell’epoca, la Stucchi evidenzia le beghe di una corte imperiale in cui la sete di potere e l’ambizione avvelenavano ogni tipo di rapporto, soprattutto familiare. Attraverso una prosa avvincente fondata su dati storici, l’autrice rileva gli elementi più rivoluzionari dell’operato di Nerone: la ricerca del favore delle masse, l’anticonformismo nei confronti della plurisecolare tradizione moralistica romana, l’idea che la politica sia una questione di immagine e di spettacolo, l’amore per il bello e l’arte.
Nerone è infatti un sovrano amato dal popolo, un princeps efficiente, «amante della pace, per nulla smanioso di ampliare i confini dell’Impero con campagne militari sanguinose, ma anche dispendiose e controproducenti». Liberatosi della presenza ingombrante della madre – sebbene risulti poco attendibile il racconto di Tacito del matricidio, come quello dell’omicidio del fratellastro Britannico, per le diverse grossolane incongruenze – il giovane Lucio Nerone si prepara ad attuare una politica riformista: abolisce le imposte dirette; «mantiene l’inflazione a un tasso accettabile»; esenta le navi che commerciano con Roma dal pagamento di dazi; «dà un forte impulso alla fabbricazione di laterizi». Realizza anche una significativa riforma monetaria «che prevede la riduzione della quantità di metallo prezioso contenuta sia nella moneta d’oro, l’aureus, sia in quella d’argento, il denarius». Affascinato dalla cultura orientale, assolda geografi ed eruditi affinché ricerchino insieme le sorgenti del Nilo senza però riuscire in tale intento. Istituisce i Neronia, giochi quinquennali strutturati come le olimpiadi greche, che prevedono competizioni atletiche, musicali ed equestri. Egli non si limita a bandirli, ma vi partecipa in prima persona, esibendosi pubblicamente come cantante e attore e gareggiando come auriga. «L’arte è stata il suo sfogo e il suo rifugio, è anche diventata una vera e propria ossessione», osserva l’autrice. A tal proposito si consideri che il lancio di una mappa (piccolo drappo) quale segnale di partenza nelle gare è proprio una novità introdotta dall’imperatore, stando a quanto racconta Cassiodoro.
Relativamente al grande incendio che divampa casualmente nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, «forse quella calunnia (l’attribuzione a Nerone, ndr) è nata da una circostanza fortuita: un giorno, durante un banchetto, un tale ha citato un verso greco: “Morto me, scompaia pure la terra nel fuoco!”. E Nerone che cosa aveva risposto, nell’eccitazione degli scherzi sbrigliati annaffiati dal vino? “Anzi! Che scompaia mentre sono ancora vivo!”. Ma come è possibile pensare che quell’immane disastro sia stato scientemente progettato da lui, come se avesse voluto cancellare la bruttezza di vecchi edifici o avesse avuto in odio la scomodità di quelle strette stradicciole che attraversano la città?». Certo è che egli ne trae grande profitto, come è noto, in quanto su buona parte di quella ‘terra bruciata’ edifica la sua grandiosa Domus aurea, con tanto di lago interno e di acque marine e termali per le sale da bagno.
Tuttavia, dopo il tragico incendio che risparmia soltanto quattro dei quattordici quartieri in cui Roma era divisa, il malcontento nei confronti dell’imperatore serpeggia a palazzo e tra le fila dei senatori. Perciò, «perché il suo scranno non vacilli, i cristiani sono i colpevoli ideali: non importa che non lo siano»; bisognava additarli come tali mediante l’accusa di lesa maestà. Le carni fumanti dei martiri utilizzate come torce nelle feste del princeps, però, cominciavano a generare commiserazione anche tra coloro che erano abituati a spettacoli tanto cruenti, per cui «iniziarono a sentirsi voci di indignazione». Il malcontento cresceva e culminò nelle celebri congiure dei Pisoni. Dopo aver sventato la prima, per non cadere vittima della seconda e presagendo ormai la sua fine, Nerone sembra preferire la strada del suicidio. Anche su tali circostanze e modalità le fonti storiche non sono concordi.
In sostanza dal romanzo di Silvia Stucchi emerge con forza il profilo dell’uomo Nerone dietro il mito sedimentato nella storiografia che non rende giustizia alla sua figura storica. Nerone ha in effetti pagato con la vita l’aver preferito il favore del popolo a quello dell’aristocrazia senatoria. Scardinando i valori del mos maiorum, «il suo regno doveva rappresentare la vittoria dell’arte sulla vita, e insieme, il tentativo di superare i confini tra le due e di abbandonare i ruoli troppo rigidi. Questa era l’eredità che voleva lasciare ai posteri: un principato che trascorra nel segno della bellezza e dell’arte».
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana