«Una poesia che unisce la lode al Creatore a quella per le creature che non sono ostacolo da disprezzare nell’amore a Lui, come pensano i catari, ma segno per comprenderLo». Così il poeta Davide Rondoni introduce il Cantico delle creature di San Francesco – una delle laudi più belle e memorabili della letteratura italiana che la rende grande sin dai suoi albori – nel saggio presente nel recente volume Vivere il Cantico delle creature(EMP 2024, pp. 105), che contiene anche le illustrazioni del Cantico di Luca Salvagno e un contributo di Guidalberto Bormolini.
È il 1224. Il frate di Assisi è quasi completamente cieco, per cui sopporta a stento la luce del sole di giorno e quella della fiaccola alla sera eppure, nel silenzio della sua cella, la sua anima canta con amore appassionato la bontà e magnificenza del Creatore, soprattutto dopo che il Padre lo ha invitato a rallegrarsi nelle sue infermità e tribolazioni come se già fosse nel Suo regno. Così egli compone e detta ai suoi confratelli il Cantico delle creature.
In tale preghiera le creature non solo cantano ‘con’ Francesco ma ‘in’ Francesco, il quale manifesta «una comunione a Dio tramite le cose, nella profondità delle cose», come fa notare il francescano Leclerc. Nel frate di Assisi è infatti radicata la consapevolezza dell’uomo medievale quale microcosmo, sintesi dell’intero creato, che «condivide l’esistenza con le pietre, il vivere con gli alberi, la sensibilità con gli animali e l’intelligenza cogli angeli», come scrive san Gregorio Magno. Allo stesso modo, secondo sant’Ildegarda di Bingen, i quattro elementi – aria, acqua, terra e fuoco – sarebbero insiti nell’uomo in modo che nessuno li possa separare e si sorreggono a vicenda. D’altra parte «l’Incarnazione dell’Amore divino è lo scopo finale di tutti gli elementi cosmici», come scrive von Balthasar, per cui il Cantico apre a una dimensione spirituale che abbraccia tutto l’universo.
L’appello alle creature a lodare il Creatore è contenuto anche nell’Antico Testamento, e in modo particolare nel Salmo 64 e nell’invito a benedire le opere del Signore del profeta Daniele (Dn 3). Perciò «tutte le cose per mezzo del Verbo costituiscono una divina armonia», osserva sant’Atanasio. In tale prospettiva la stessa croce di Cristo è una scala cosmica che unisce la terra al cielo e ricongiunge l’intera creazione al suo Creatore, «come se questo supplizio della croce avesse penetrato tutte le cose», medita il mistico san Giovanni della Croce. Ogni creatura è dunque chiamata a «zampillare in un grido di giubilo, reso libero dal partecipare al tuo zampillare: Spirito Santo, giubilo eterno!», medita con intenso lirismo santa Teresa Benedetta della Croce.
Francesco apre la sua preghiera con il riferimento a tre nomi divini, dal momento che il Creatore è principio e fine di ogni realtà creata. “Altissimu” «è una parola sproporzione, dismisura fatta voce, labbra, lingua, aria in gola, nodo di commozione; la eco che prefigura, precontiene tutte le parole che verranno», afferma il poeta Rondoni. Francesco ha il senso dell’essere minimo, «minore non nulla, per cui il ‘quasi niente’ umano dice “Altissimu”, nominando il mistero che lo abita e lo genera. “Onnipotente” è invece caratteristica del potere e della regalità di Dio; “Bon” è il segno della riverenza fiduciosa».
Con grande devozione amorosa il frate di Assisi dice ‘mio’ al Signore e diventa «spazio vocante della voce di tutti», come rileva il “cum” riferito a tutte le creature. A partire dal sole, anch’esso «povero perché non fonda in sé il proprio valore», Francesco contempla ogni realtà con «sguardo doppio», ovvero come segno di Qualcuno, per cui «percepisce il mondo come luogo della manifestazione dell’invisibile».
Riguardo agli aggettivi “multo utile et umile e preziosa e casta” che Francesco riferisce all’acqua, Rondoni sostiene che mai nessun poeta abbia trovato «per lei parole così esatte, concrete e commoventi». Il fuoco, invece, non costituisce semplicemente un’allusione alla dimensione spirituale o a quella ludica per i bambini, ma è anche quel fuoco doloroso che egli sperimenta nella sua carne attraverso la «cauterizzazione per le cure agli occhi e alle orecchie».
L’uomo è introdotto da Francesco con la sua qualità più alta, il perdono, che è «segno della libertà, qualcosa che è “contro natura”» e la forma più alta d’amore che lo rende autenticamente figlio del Padre a immagine del Figlio. Nel Cantico inoltre anche la Morte ha la lettera maiuscola, è creatura e sorella; è però distinta dalla “morte secunda” con l’iniziale minuscola, quasi indegna di essere menzionata tra le realtà create, in quanto caratterizza soltanto chi rifiuta l’amore del Padre.
L’ultima parola del Cantico è “humilitate”, che ricapitola la parabola dell’intera lauda «dalla vertigine dell’altezza alla semplicità dell’umiltà», una virtù incarnata eroicamente da Francesco che costituisce la modalità autentica di vivere la relazione con il creato e il Creatore, dalla quale scaturiscono lode, gratitudine e servizio a Dio e ai fratelli.
Infine, rispetto alle interpretazioni distorte che fanno del poverello di Assisi un ‘santo green’, Rondoni puntualizza opportunamente che «la fraternità di Francesco non scambia gatti per persone. Stabilisce un legame creaturale che non parifica in ambiguo egualitarismo ecobiologico». Si tratta allora di fare della propria vita un cantico d’amore al Padre, così come ha fatto Francesco quale alter Christus, unendo ciascuno il proprio cantico di lode a quello di tutte le creature in vista di quell’unico cantico cosmico senza fine che siamo chiamati a innalzare nella gloria del paradiso per l’eternità.
Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana