Nella terra dei fuochi la fondatrice di “Casa Rut” racconta la sua lotta contro la prostituzione
Quando nel 1995 giunsero a Caserta per la prima volta le Orsoline del Sacro Cuore di Maria non avevano una missione pianificata a tavolino. Lasciarono perciò che fosse il luogo cui erano state destinate a ispirare i loro propositi, a costituire il terreno buono su cui profondere il proprio carisma consistente nel farsi compagne di strada delle donne in difficoltà. Dall’analisi del territorio scoprirono che a Caserta esisteva un carcere femminile e che molte, anzi troppe ragazze dell’est, dell’Africa nera, per lo più di età compresa tra i 15 e i 20 anni, erano costrette dal racket a prostituirsi. «Siete suore, state al vostro posto! Pregate, state tranquille! Lasciate perdere, è il mestiere più antico della terra, c’è sempre stato da che mondo è mondo!». Furono queste le parole che sentirono pronunciare dall’ispettore di polizia locale allorquando chiesero delucidazioni sulla condizione di queste donne.
Così Rita Giaretta, orsolina di origini vicentine, infermiera ed ex sindacalista della Cisl, racconta in un incontro a Salerno le radici della sua vocazione missionaria e di “Casa Rut”, una comunità di accoglienza che in 20 anni di attività ha liberato 350 donne dalla tratta che le mercificava e ha aiutato a far nascere 60 bambini (il più grande di essi ha ora 17 anni!).
Tutto ha inizio da un gesto di vera carità, semplice ma prezioso per la sua capacità di sciogliere il timore e aprire alla gioia di un incontro. «L’8 marzo 1997 caricammo il bagagliaio della nostra auto con tante piantine di primule. A ciascuna di esse allegammo un messaggino arrotolato, sul quale era scritto in tre lingue (inglese, francese, italiano) semplicemente: “Cara sorella, cara amica, con questo segno vogliamo dirti che qualcuno pensa a te con amore”. Eravamo in quattro, in un’auto di sole donne e, quando ci avvicinammo per la prima volta, il loro primo tentativo fu quello naturale di fuggire, ma poi esse accantonarono le paure e si abbandonarono alla commozione, al pianto. Prendevano la croce che avevamo al collo e la baciavano, chiedendoci di tornare».
Dopo aver donato le quaranta piantine, suor Rita insieme alle sue consorelle ritornò a far loro visita ogni settimana con altri regali, quali un rosario o magari una Bibbia. «Queste ragazze – prosegue suor Rita – non potevano aprirsi subito, perché anche il dolore più intimo e profondo ha bisogno di un tempo. Solo alla terza, alla quarta volta che ci videro, iniziarono a dirci i loro nomi, a farci vedere le ferite dei loro corpi martoriati, le bruciature di sigarette, fino a esclamare: “Mamma, non buono questo lavoro!”». Il loro grido di dolore finalmente non cadeva più nel vuoto, veniva ascoltato e il loro dramma umano compreso. Non erano più schiave abbandonate nelle mani di violenti senza scrupoli, perché qualcuno si era accorto della loro condizione ed era pronto a sottrarle a una tratta disumana che le costringeva a dare i propri corpi in pasto a degli sconosciuti, nell’ansia di colmare un debito sulle proprie teste, che ammonterebbe oggi a una cifra compresa tra i 40000 e i 60000 euro. Fu così che un giorno una di queste ragazze aprì la portiera dell’auto delle suore e vi si infilò dentro, supplicando di portarla via con loro. «Sono state dunque le ragazze – esclama suor Rita – a inventare il nostro servizio, la nostra realtà di “Casa Rut”! Dio ci chiedeva di essere per loro strumento di liberazione». Una libertà che Martina riacquistò a caro prezzo.
Martina è una rumena di 17 anni che, fidandosi del fidanzato che le aveva promesso un lavoro da babysitter in Italia, si trovò segregata in una casa al buio per un anno, ad attendere i suoi clienti ignoti, fino a quando l’eccessivo andirivieni dall’appartamento in cui era nascosta non insospettì i condomini. Essi avvertirono i carabinieri che, presentatisi in borghese come clienti, irruppero in quella casa, la liberarono e la condussero dalle suore che l’avrebbero accolta. Ma il suo calvario non si era concluso. Infatti di lì a poco Martina scoprì di essere incinta e, tra le lacrime, riferì a suor Rita che avrebbe voluto buttare via il frutto di quello stupro. D’altra parte non sapeva neanche come dire ai suoi genitori, del tutto all’oscuro del suo ‘lavoro’, di aspettare un figlio frutto di un’orribile violenza e di padre ignoto. Tuttavia il suo grido disperato di dolore non fu inaudito; trovò risposta tra le pagine di un libro di preghiere che custodiva gelosamente con l’immagine della Vergine. Nel guardare la Madre ella comprese che non avrebbe potuto abortire suo figlio e che avrebbe portato avanti la gravidanza.
La vicenda di Martina è una storia di morte trasformata in vita, di vita nuova, di risurrezione. Le storie di liberazione come la sua rappresentano i miracoli di Casa Rut, una «casa che accoglie, che non giudica e non fa moralismo, in cui si vive la parabola del figliol prodigo al femminile, con un Dio che è madre e apre le porte, che rialza e ridona dignità a chi era perduto». Suor Rita ci tiene a sottolineare l’importanza di offrire a queste donne, quali forme di prima accoglienza, tutti vestiti nuovi. Un segnale che sottende un messaggio altamente significativo: «Ti riconosco nella tua bellezza, ti voglio restituire quella bellezza che altri ti hanno derubato».
Ancora oggi l’opera di suor Rita e di “Casa Rut” non si limita soltanto a ridare dignità alle vittime della tratta, ma dal 2005, attraverso la fondazione di una cooperativa sociale newHope (http://www.coop-newhope.it) vuole offrire alle donne anche un’opportunità professionale concreta, una “nuova speranza” di lavoro nella legalità. Le vittime della strada sottratte al racket che non possono ritornare nei loro paesi perché non hanno pagato il debito ai loro ‘protettori’ trovano quindi a Casa Rut e in questa cooperativa sociale che realizza manufatti etnici di oggettistica, prodotti di arredo casa e bomboniere, «una possibilità di affermazione della propria dignità di persone, un’opportunità di mantenimento, cura ed educazione dei propri figli, di formazione e di inserimento al lavoro, di partecipazione alla vita sociale del Paese, a partire dal territorio in cui vivono». Restituite soprattutto alla loro dignità inalienabile di figlie di Dio, queste donne passano dunque «dalla strada a essere imprenditrici, da rifiuti tra i rifiuti a essere risorse».
Fonte: LaCroceQuotidiano