“Virilità”, “fratello e sorella”, “re e regina” sono parole ed espressioni da abolire perché fortemente connotate in senso maschile o femminile in relazione al loro genere. È quanto ritiene Virginija Langbakk, direttrice dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), la quale ha recentemente presentato un “Toolkit on Gender-sensitive Communication” di rieducazione al linguaggio in chiave gender. Ancora una volta dietro il pretesto dell’elaborazione di un linguaggio più inclusivo e ‘non discriminatorio’ si cela l’intento di sovvertire la realtà delle cose.
Nel mirino dell’Eige finiscono tra gli altri l’aggettivo “virile” da sostituirecoi sinonimi “energico” o “forte” perché troppo legato alla mascolinità; l’aggettivo “stridulo” perché troppo connotativo della femminilità, per cui lo stesso Istituto suggerisce di utilizzare il termine “acuto” al suo posto, decisamente più neutro. Allo stesso modo occorre invertire l’ordine delle parole nelle espressioni “re e regina” e “fratello e sorella”, ossia preferire “regina e re”, “sorella e fratello” proprio al fine di evitare il primato del maschile sul femminile.
Sono questi solo alcuni esempi di una deriva antilinguistica che consegue il paradosso per cui, in nome della tutela della diversità, è cancellata ogni diversità e specificità maschile e femminile. Mirando all’indistinto e all’indeterminato la cancel culture si illude così di costruire un ‘ordine nuovo’ almeno attraverso il linguaggio, anche se basta la ragione dell’uomo comune per smascherarla e scardinarla.
Guardando di fatto oltre la parità genere, ossia al ‘neutro’ quale modello di linguaggio e di realtà, l’ideologia Lgbtq+ al potere ha come principale obiettivo, dietro il pretesto di cancellare ogni forma di patriarcato, quello di eliminare ogni ‘man’ dalle parole nel tentativo di obliare gradualmente sempre più il genere maschile (per fare un solo esempio, l’espressione “best man for the job” non deve più essere adoperata!).
Allora, al fine di custodire la realtà, basti ricordare a tali ideologi come Harvey C. Mansfield – uno dei massimi filosofi politici americani e professore ad Harvard dal 1962 – definisca nel saggio Virilità la peculiare virtù maschile omonima e l’uomo che la manifesta: «L’uomo virile infonde in tutti un po’ della sua sicurezza. Non solo sa cosa è giusto fare, ma sa anche fare la cosa giusta; decide e agisce quando gli altri continuano a brancolare nel buio paralizzati dalla paura». Assume dunque il controllo della situazione, si china sui più deboli sospinto dalla compassione, per cui suscita ammirazione. Dunque «la virilità non è mera aggressione; è aggressività che proclama un principio, afferma una causa che poi sposa. La causa nasce dai rischi che l’uomo virile deve affrontare» (per ulteriori approfondimenti sul tema, si invita a consultare l’articolo dedicato al tema sull’ultimo numero della nostra Rivista).