«Vengo da Beni, città situata a 700 km a nord di Goma nel Nord Kivu, una regione ormai preda di conflitti armati in cui le vittime aumentano tragicamente di giorno in giorno. Qui diversi gruppi armati, tra cui i ribelli del movimento M23, i Mai-Mai (gruppi popolari di miliziani armati) e le Adf/Nalu (Forze Democratiche Alleate, ossia un gruppo di terroristi islamici) dettano legge e seminano il terrore, nascondendosi dietro ideologie religiose o rivoluzionarie». Comincia così il suo racconto in esclusiva a Il Timone Gloire Kambale Sikwaya, giovane congolese di 25 anni che ha negli occhi i cadaveri e le strade insanguinate della sedicente Repubblica Democratica del Congo, una tragedia balzata alla cronaca solo recentemente ma con radici antiche.

 «Sono nato a Lubero, una città in cui le milizie Mai-Mai controllano il territorio. Sono cresciuto e ho svolto gran parte dei miei studi a Beni, dove i gruppi terroristi delle Adf massacrano e uccidono selvaggiamente le persone. In nome della loro ideologia islamista sventrano donne incinte, sgozzano bambini, bruciano uomini nelle loro case. Di qui molte persone sono state uccise a colpi di machete, tra i quali molti dei miei compagni di classe e amici d’infanzia», prosegue Kambale che non riesce a trattenere le lacrime.

«Avevo solo 15 anni quando durante una notte nell’aprile 2015, nel quartiere limitrofo di Rwangoma, abbiamo sentito proiettili ed esplosioni a causa di un tumulto spaventoso. Nostro padre ci ha chiesto di nasconderci sotto i letti perché era probabile che i miliziani delle Adf, che stavano attaccando il quartiere vicino, attaccassero anche il nostro. Fortunatamente poi questi jihadisti non hanno attaccato il nostro villaggio. Ma quella mattina le jeep delle Fardac (forze dell’esercito lealista) hanno attraversato il nostro quartiere per raccogliere i cadaveri delle persone massacrate. Abbiamo visto trasportare corpi fatti a pezzi coi machete. Tra le vittime ammucchiate ho riconosciuto anche due miei compagni di scuola, Norbert e Junior», continua Kambale mentre rievoca come «in quel periodo le autorità militari vietarono ai residenti persino di accedere ai propri campi perché ritenevano che lì si nascondessero i terroristi delle Adf. Non avevamo più accesso ai nostri campi, la gente cominciava ad avere fame, mentre gli jihadisti massacravano senza scrupoli i civili e incendiavano ospedali e scuole».

«Una mattina il mio compagno di classe Ezekiel mi disse che, poiché sua madre era malata e a casa non c’era cibo, dopo scuola sarebbe andato ugualmente nei campi a raccogliere fagioli e banane. La loro tenuta agricola era a circa due ore di cammino. Mi chiese di accompagnarlo perché aveva troppa paura di andar da solo a Kadouh. Io avevo un’interrogazione di geografia, per cui gli dissi che l’avrei raggiunto più tardi. Vedendo che non rientrava, insieme a sua sorella, lo zio e due cugini andammo a cercarlo. Dopo aver visto lungo la strada cinque persone decapitate dagli stessi terroristi islamici delle Adf, lo trovammo mani e piedi legati e con la gola tagliata. Il suo sangue scorreva sui caschi di banane appena raccolte. Nello stesso periodo morirono in egual modo una ventina di altri amici d’infanzia», prosegue Kambale.

Un anno dopo i tagliagole delle Adf giungendo a Beni colpiscono brutalmente la sua famiglia, saccheggiando il bestiame e bruciando le persone nelle loro case. «Sentendo gli spari, mia sorella va subito a chiudersi in casa. Suo marito, che era fuori, si nasconde dietro una siepe col figlio piccolo in braccio. Il piccolo però comincia a piangere. Allora i terroristi lo scovano, lo afferrano per un piede e lo sbattono contro il muro: mio nipote muore sul colpo. Gli stessi lanciano poi un esplosivo sulla casa in cui c’era mia sorella, che muore così carbonizzata. Oggi come allora seppelliamo i nostri cari massacrati uno dopo l’altro. A Beni le Adf continuano seminare il terrore e mietere vittime innocenti», continua il giovane congolese che da cinque anni è anche reporter di una radio cattolica diocesana, per cui ha avuto modo di assistere e raccontare da vicino le violenze efferate compiute da questi spietati terroristi che «cavano gli occhi alle loro vittime prima di sparargli, tagliano i seni delle madri e fracassano la testa di bimbi piccoli prima di lasciarli morire tra i cespugli», le quali gli provocano ancora dolorosi incubi notturni.

Kambale ha lasciato la sua abitazione ed è attualmente assunto come lavoratore in un monastero delle suore trappiste dell’ordine cistercense. «Continuo ad avere preoccupazioni per la mia famiglia rimasta nel Nord Kivu. Prego ogni giorno per loro e per gli altri che sono lì. Desidero continuare i miei studi in comunicazione e giornalismo e auspico di poter tornare presto a casa e contribuire, mediante una sensibilizzazione di massa sul tema della coesistenza pacifica, alla pace nella mia regione e alla ricostruzione di questo Paese», confessa ancora a Il Timone.

Ora nell’animo di Gloire Kambale persiste – soprattutto dopo i recenti violenti massacri di Goma e in Ituri – il dolore di una ferita aperta che ancora sanguina, comune all’intero popolo congolese. Egli però non ha perso la speranza che gli viene dalla sua fede salda, per cui se da un lato auspica che la comunità internazionale si mobiliti al più presto per contribuire alla fine di tali orrori e stragi, dall’altro prega che «Dio accolga le anime di tutti questi innocenti massacrati affinché dal Cielo intercedano per la conversione dei loro carnefici e dei miliziani che rendono insicuro il Nord Kivu».

Fonte: Il Timone

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