Gli strumenti sono sempre neutri, male e bene dipendono dall’uso che se ne fa. Eppure, in specie quando si parla di mass media, il mezzo è il messaggio, nella misura in cui influenza notevolmente la percezione della realtà e il suo rapporto con essa. Muove dalla condivisione di quest’osservazione del filosofo e sociologo canadese McLuhan il recente saggio Smetto quando voglio (Il Timone 2024, pp. 117) dello psicologo e psicoterapeuta Roberto Marchesini che offre preziosi suggerimenti a genitori e figli, con tanto di “decaloghi” in calce, per uscire dalla dipendenza da smartphone.

Disturbi del sonno, dell’attenzione, iperattività, irritabilità, e ancora ansia, depressione e pensieri suicidari sono nei giovanissimi solo alcuni dei sintomi da dipendenza da smartphone. Un abuso che «non ha niente di diverso dalla cocaina, date le stesse identiche implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche». È quanto si legge in un documento del Senato della Repubblica, che rileva altresì come tale uso costante di smartphone da parte dei minori determini «una progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, quali capacità di concentrazione, memoria, spirito critico, adattabilità, capacità dialettica». Di qui se nel Novecento l’effetto Flynn attestava come i figli fossero più intelligenti dei loro genitori e ancor più dei loro nonni; ora è divenuto un «effetto Flynn inverso», perché pare che i giovani siano decisamente più stupidi dei loro antenati, altro che multitasking. D’altra parte, osserva in proposito Marchesini, l’intelligenza è «come un muscolo che aumenta con l’esercizio, con la fatica, con lo sforzo», ridotti ormai al minimo indispensabile nella misura in cui si demanda qualsiasi cosa alla tecnologia. Così l’impoverimento del linguaggio e della vita sociale dei ragazzi, come l’uso crescente di psicofarmaci in giovane età, sono solo alcuni degli effetti drammatici più comunemente riscontrabili tra i figli della iGeneration.

Perciò, sulla base di numerosi studi internazionali dagli Usa alla Svezia, dal Giappone alla Francia, le più recenti evidenze scientifiche suggeriscono unanimi le seguenti contromisure: niente schermi prima dei sei anni, in specie nei primi tre anni quando il bambino ha bisogno di prendere le misure del mondo, delle distanze, di orientarsi nel tempo e nello spazio attraverso una conoscenza tattile; niente schermi al mattino prima di scuola e la sera prima di andare a dormire, in quanto «luci forti e di colore innaturale, colori saturi e immagini in rapida successione attivano cognitivamente il bambino non rispettando il suo ritmo naturale fatto di accensioni lente e dolci spegnimenti, accompagnati da un sintonico cambiamento della luce solare». Allo stesso modo le competenze sociali si affinano nella vita reale, non in rete; i social dunque non favoriscono, anzi danneggiano le competenze emotive e l’empatia dei minori.

Alla luce di tali considerazioni Marchesini suggerisce di «ritardare quanto più possibile la consegna dello smartphone ai propri figli (o dei propri figli allo smartphone, dipende dai punti di vista)», costruendo alleanze positive coi genitori che condividano tale scelta educativa, anche per evitare l’insorgenza nei figli di un senso di esclusione. Un consiglio invece valido anche per gli adulti è quello di fare «una cosa alla volta»: se si mangia si mangia, se si studia si studia, se si parla con altre persone non si sta insomma a guardare lo smartphone.

Tra le altre ricadute rilievanti vi è anche il problema della profilazione dei dati. D’altra parte è noto che se non si paga il servizio di cui si usufruisce, il prodotto in vendita diventa lo stesso utente. A tal proposito l’autore evidenzia numerose e curiose coincidenze – che rilevano nel piacere inconsapevole di essere schiavi la matrice huxleyana più che orwelliana della nostra società – a partire dall’antesignano di internet Arpanet, una rete creata per usi militari che vanta tra i suoi fondatori il nonno di Jeff Bezos, l’ideatore di Amazon. E in effetti «il divertimento gratuito, la merce regalata, l’abolizione della fatica (anche quella di pensare), la premura per la nostra salute e la nostra felicità nascondono l’asservimento, il controllo e la manipolazione. Il Paese dei balocchi ha mostrato il suo vero volto, anzi: le sue orecchie d’asino».

Infine lo psicoterapeuta milanese propone un decalogo per supportare in special modo i genitori nella dura gestione degli schermi coi loro figli, tra i quali l’invito a vigilare sui contenuti; «a non usare gli schermi come baby-sitter o strumenti di distrazione e intrattenimento»; a non collocare schermi in cameretta; a «mettere via il telefono quando siamo con una persona in carne e ossa»; a fare «una cosa alla volta»; a ricordare frequentemente a sé e ai figli i “tre principi di Internet” di Tisseron: «1) Tutto ciò che ci si mette può diventare di dominio pubblico; 2) tutto ciò che ci si mette ci resterà per sempre; 3) non tutto ciò che si trova su internet è vero». Si tratta poi di insegnar loro ad aver cura di sé, a curare relazioni, a coltivare interessi, a praticare sport e ad amare anche la fatica, nella consapevolezza che il miglior modo di educare resta il buon esempio.

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana

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